Mentre in Francia vince Macron (e tutti gli europeisti e democratici convinti tirano un sospiro di sollievo), in Italia, l’Assemblea del Partito democratico, con l’insediamento di Renzi a segretario, ci consegna una incredibile scoperta: la vittoria di Renzi al Referendum del 4 dicembre.
No, non è uno scherzo, ma la pura verità. Qualcuno ne era convinto già allora, ma non ha osato scriverlo. Sarebbe stato preso per matto se l’avesse sostenuto. Perché, dunque, Matteo Renzi ha vinto il referendum del 4 dicembre? Di seguito alcune risposte.
Il senso di responsabilità
Primo: si è preso una responsabilità. Nella storia italiana è assai raro raccontare esempi di questo genere. Esempi di leader capaci non soltanto di promuovere un cambiamento, una idea, un progetto, ma anche di farlo alla luce del sole, con coraggio, sapendo che non ci sono alternative all’esito binario: vincere o perdere.
La riforma è stata sconfitta. Non c’è alcun dubbio. Bisogna riconoscerlo oggi più di ieri. Ma chi l’ha preparata e promossa lo ha fatto con trasparenza, coscienza e audacia. E dopo la sconfitta si è dimesso con coerenza, nel rispetto di quel principio di accountability che la politica italiana conosce e pratica poco o per niente.
Secondo: non ha vinto, ma ha convinto. Renzi ha perso la partita della riforma. Ma grazie a questa iniziativa responsabile ha conquistato, all’interno del partito, la stima dei suoi quadri dirigenti, e, al di fuori, quella dei simpatizzanti del Pd. Bisogna ricordare, infatti, in quale clima di sospetto e ostilità era apparso sulla scena.
Accolto sostanzialmente come un usurpatore alieno dalla classe dirigente postcomunista e postdemocristiana, sembrava destinato a essere espulso, prima o poi. Non è stato così: nella progressiva conquista di credibilità, la battaglia referendaria è stata un passaggio fondamentale. Il risultato delle primarie è stato esplicito in tal senso.
Il benaltrismo sul referendum
Terzo: ha svelato l’inconsistenza dei suoi avversari. La tutt’altro che santa alleanza contro le riforme era una somma di forze politiche disomogenee, unite dall’istinto di autoconservazione, impaurite dalla forza emergente dell’avversario.
Ma il dato più importante è un altro: nessuna di queste forze aveva una ipotesi alternativa. Sappiamo da anni che le istituzioni italiane hanno bisogno di essere profondamente rinnovate, ma nessuno degli oppositori alla riforma del 4 dicembre aveva una soluzione in questo senso. In più, quei politici benaltristi che avevano millantato riforme facili, ma immaginarie, da realizzare in pochi mesi, sono stati clamorosamente smentiti dai fatti in questi primi mesi del 2017.
La vocazione maggioritaria
Quarto: ha rafforzato la vocazione maggioritaria del suo partito. Non sempre alle sconfitte segue un’assunzione di responsabilità. In Italia poi, si sa, nessuno perde mai fino in fondo e così chi perde non lascia mai il campo. Dimettendosi da presidente del Consiglio, prima, e da segretario del partito, dopo, Renzi ha chiarito un punto: che le due cariche in un partito moderno di una democrazia occidentale sono coerenti e collegate da una linea di responsabilità politica.
In più, grazie a queste scelte (proposta di riforma, dimissioni per la sconfitta), il Partito democratico ha di fatto coperto tutto il campo dei riformisti e progressisti. In tal modo, ha lasciato a tutti gli altri il campo sgangherato e disallineato della conservazione e ha rafforzato il suo profilo di partito ‘pigliatutto’: nel senso ovviamente, di partito a vocazione maggioritaria.
Il punto di partenza
Sembra questo, alla fine, il messaggio più importante che proviene dal percorso congressuale del PD, dalle sue primarie e dall’Assemblea nazionale che si è tenuta domenica. Ovviamente, tutto ciò non basta per vincere le prossime elezioni e nemmeno per mettere in piedi, in caso di vittoria, un governo coerente. Ma è, senza alcuna ombra di dubbio, il punto di partenza necessario.