Viva la FifaA Cardiff ha perso la Juve, non il calcio italiano

Commentare il calcio italiano significa spesso e volentieri passare da un eccesso all’altro. Prima della finale di Champions League c’era chi non vedeva l’ora di consegnare il Pallone d’Oro a Dybal...

Commentare il calcio italiano significa spesso e volentieri passare da un eccesso all’altro. Prima della finale di Champions League c’era chi non vedeva l’ora di consegnare il Pallone d’Oro a Dybala e chi riteneva Cristiano Ronaldo meritevole della panchina se avesse giocato in bianconero, giusto per citare due esempi tra i più significativi. Dopo la partita — per chi non lo sapesse, è finita 4–1 per la Juve: una bella botta, non c’è che dire — siamo subito saltati dall’altra parte della barricata che delimita il campo delle esagerazioni. Tra le quali spiccano la solita storia sulla Spagna che regala lezioni all’Italia, nonché una Serie A poco “allenante” e che quindi sarebbe causa degli insuccessi in Europa dei nostri club.

Partiamo da quest’ultimo assunto, che non è difficile da smontare e riporre in scatola. Non dovrebbe essere arduo intuire prima di tutto che un campionato di 38 giornate è cosa assai diversa da una competizione che di gare, in caso di arrivo in finale, ne prevede 13. Dunque un percorso totalmente diverso già come approccio: solo il girone iniziale può essere in piccolo paragonato ad un campionato, cioè ad un torneo dove una sconfitta può essere rimediata nel corso delle gare successive, sebbene il girone preveda 6 gare in tutto e una sconfitta qui ha un peso specifico diverso. In un torneo lungo come la Serie A (o la Premier) puoi programmare la stagione sul lungo periodo, in Champions dagli ottavi in poi te la giochi su andata e ritorno. In Serie A, come sosteneva Lippi, lo scudetto si vince in provincia in Champions prima o poi una squadra che quella coppa l’ha vinta anche più volte devi affrontarla e superarla. Ed è in questo contesto che non dovrebbe attecchire l’idea di un campionato allenante per la Champions: ogni torneo nazionale fa storia a sé, è un sistema chiuso dove si sviluppa un sistema di gioco che può essere riproposto in Europa con esiti diversi e non sempre positivi. Già: se un campionato è allenante per l’Europa, le squadre di Premier League, considerato il miglior torneo nazionale al mondo, dovrebbero sollevare quella coppa tutti gli anni. E invece, pensa un po’, l’ultimo club a vincerla è stato (per caso, diciamolo) il Chelsea nel 2012. Da quel momento in poi, solo il Manchester City ci è andato vicino centrando lo scorso anno la semifinale, in un doppio confronto con il Real che non passerà certo alla storia. Che la Serie A non sia allenante, poi, è un discorso che contraddice tutti i discorsi sulla bellezza del gioco del Napoli dei record di Sarri, o della Roma di Spalletti: decidetevi una buona volta, o sono forti oppure no.

Il discorso vale anche per la Liga, ovviamente. Un torneo cioè nel quale Barcellona e Real Madrid si dividono la posta da anni e dove ogni tanto si è permesso di fare capolino l’Atletico Madrid, ovvero un club che si è “permesso” di investire sul mercato (rischiando impicci con i fondi di investimento)e avviare un progetto tecnico con Simeone per rompere il duopolio Barcellona-Real. Si potrebbe obiettare allora che sì, la Liga è allenante visti i recenti continui successi europei di Real e Barça, ma bisogna stare attenti a non confondere campionati con stili di gioco. In questo momento storico del pallone, l’arte del palleggio al quale gli spagnoli sono abituati fin dalle cantere, è ormai predominante da anni ed ha trovato il suo massimo punto di equilibrio ed efficacia con il Tiki-Taka di Guardiola. Non deve essere un caso se l’Atletico Madrid, pur con organici mai davvero alla pari negli anni con quello del Real, sia arrivato in finale di Champions due volte negli ultimi anni, senza vincere: un conto è rompere il gioco dell’avversario, un altro crearlo. E il Real di Zidane, che può contare su abili palleggiatori del calibro di Modric e Kroos, di gioco ne crea quanto basta per vincere senza nemmeno sudarsela più di tanto.

Che poi è quello che è accaduto a Cardiff. La Juventus ha ampiamente meritato l’accesso alla finale, perché è riuscita ad unire la tenuta difensiva della scuola italiana con il giusto approccio alla tenuta del campo: in sostanza, il 4–2–3–1 usato da Allegri da gennaio in poi ha permesso alla squadra di occupare bene ogni spazio ed ha permesso di ritagliare specifici compiti a giocatori in modo tale da sfruttare le proprie qualità: l’intuizione di Allegri non è stata quella di “inventare” un sistema di gioco già visto con Mourinho nell’Inter del Triplete, ma di adattarlo alla squadra che aveva per le mani: vedi Mandzukic esterno o Dybala in grado di giostrare il pallone dietro a Higuain. Contro il Real, l’approccio della Juve è stato quello visto spesso in campionato, tant’è che le prime due occasioni della gara sono state create dai bianconeri. Il problema è stato a centrocampo. Se si vuole ricercare la lezione impartita dal Real Madrid alla Juve, va ricercata nell’equilibrio in quel settore del campo. Alla Juventus è mancata quella copertura totale spesso vista in altre gare, con Khedira che in particolar modo ha sofferto il palleggio del Real che, disposto a rombo, era dotato di due palleggiatori puri come Modric e Kroos contro uno come Pjanic. Dispoinendosi a rombo, il centrocampo del Real ha avuto tutto il tempo di far circolare palla, avendo sempre qualcuno al quale appoggiarsi per poter innescare l’azione attaccando lo spazio (così come fa il Napoli di Sarri, ma senza disporsi a rombo).

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