Quacquarelli Symonds, una società britannica che si occupa di servizi per studenti universitari in tutto il mondo, ha pubblicato i QS World University Rankings, ossia la classifica delle migliori università mondiali. In testa c’è l’M.I.T. (Massachusetts Institute of Technology di Boston), seguito da Stanford e da Harvard; quarto il California Institute of Technology, quinta Cambridge, sesta Oxford.
E le italiane? La Bocconi non c’è, perché specialistica.
Il Politecnico di Milano è al 170° posto, l’Alma Mater di Bologna al 188°, la Scuola Superiore S. Anna e la Scuola Normale di Pisa al 192°.
Mah….
Sarebbe ridicolo negare l’esistenza di gravi problemi e forti insufficienze in ordine ai nostri atenei.
Tuttavia, persino americani, inglesi, europei ed asiatici riconoscono che nelle nostre migliori Università la qualità dell’insegnamento è molto elevata ed un laureato del Politecnico di Milano o della Normale di Pisa è in grado battere, in un confronto uno contro uno, qualunque laureato americano, inglese o asiatico.
Certo, è giusto che una classifica generalista tenga conto di tanti fattori, organizzativi, gestionali, ambientali oltre che scientifici. Ma il risultato, deludente, nonostante qualche progresso rispetto agli scorsi anni, deve servirci per porre rimedio alle carenze, senza però ignorare che la qualità delle nostre punte di eccellenza esiste e va preservata.
La domanda da porsi è come la Bocconi ha recuperato posizioni in classifica nell’ambito delle università europee di economia. Ha analizzato con attenzione quali fattori sono presi in considerazione dalle società di valutazione. In ogni area di debolezza si nomina un responsabile che tiene il passo del progetto di miglioramento. Molte università italiane si disinteressano dell’ufficio Placement, che è invece considerato in modo rilevante all’estero. Perché non metterci mano? Per pigrizia, supponenza, o benaltrismo.
Una tendenza interessante che dovremmo portare in Italia è la contaminazione delle discipline. I laurendi in medicina devono studiare economia e chi studia finanza deve studiare Joyce e Proust. Si parla sempre di più di digital humanities, le discipline umanistiche declinate sul web. Una volta studiato Leopardi, allo studente si dà il compito di aprire una pagina su Facebook e di creare contatti, rete di comunità di seguaci, “persi” per il grande poeta di Recanati.
Tempo fa ero al telefono con Agar Brugiavini, direttrice del Collegio Internazionaledi Ca’ Foscari, la quale mi disse: “Il nostro studente tipo studia economia o filosofia a Ca’ Foscari e, al contempo, effettua nel Collegio (dove risiede) dei percorsi di didattica complementare (in gergo, “Minor”, ossia con un numero di crediti inferiore al corso di laurea) in altre discipline. L’obiettivo è approfondire temi non specifici della propria disciplina. In tal modo lo studente matura molto, apre la propria testa ed è disponibile a mettersi in gioco anche su altre discipline”.
Brugiavini sottolineò un punto molto rilevante, la necessità di conoscenze orizzontali che consentano di affrontare il cambio di tipologia di lavoro durante la propria vita: “L’università deve preparare lo studente a un mondo lavorativo dove il percorso fordista si è esaurito, avremo sempre più ‘carriere interrotte’, caratterizzate da discontinuità”. Un modo per essere pronti è contaminare i saperi e le conoscenze. Ai laureati in lettere, per esempio, durante il percorso magistrale, organizziamo dei laboratori di “Digital humanities”, dove si impara a costruire pagine web, sondaggi su facebook, interviste online”.
Proprio pochi giorni fa alla Stampa Ivo Dionigi, già rettore dell’Università di Bologna, ha detto: “Dobbiamo investire sul sapere orizzontale. Anche Steve Jobs diceva che abbiamo bisogno di ingegneri rinascimentali. Nei saperi tecnologici si deve inserire la storia, in quelli umanistici l’economia. Dobbiamo insegnare ai ragazzi ad essere capaci di imparare”.
Con tutti i laureati in discipline umanistiche e le migliaia di studenti in giurisprudenza (troppi, vedasi le analisi di Nicola Persico), urge spingere le facoltà a contaminare le lezioni con dosi sempre maggiori di scienza e statistica.
P.s: Questo post è scritto a 4 mani con Pippo Amoroso, già presidente dell’Associazione per il Progresso Economico.