Ci sono almeno un paio di probabili ragioni per le quali l’idea di distribuire denaro in modo incondizionato vende così bene al mercato politico italiano:
- una motivazione di tipo emotivo, vede in misure del genere l’adeguata compensazione per alcune esternalità negative (scomparsa di determinate tipollogie di lavoro di impresa, calo del reddito disponibile) connesse all’innovazione tecnologica e (qualsiasi cosa s’intenda con questa parola) alla globalizzazione
- un’altra, di carattere logico si fonda sull’apparente buonsenso di stampo pseudo-keynesiano inerente l’opportunità di sostenere i consumi quando i redditi da lavoro vengono a mancare
Partiamo dal punto 2 per illustrare il vizio logico e concentriamoci sul caso particolare dell’automazione: se l’impiego di perfidi robot facesse sparire tutti i posti di lavoro e i connessi redditi, non resterebbe nessuno con denaro disponibile per acquistare i prodotti realizzati dalle macchine – di qui l’idea di garantire a tutti un reddito che possa consentire di acquistare i beni realizzati senza l’impiego di lavoro umano (dallo stesso presupposto, deriva anche la famigerata “tassa sui robot”). Un ragionamento del genere è tuttavia confinato nel regno della mera astrazione perché
- l’automazione non è mai integrale, anche se introduciamo robot nelle catene di montaggio, occorreranno dei tecnici per supervisionarli (per non dire degli individui che hanno progettato i nuovi macchinari e i nuovi processi aziendali), così come l’utilizzo di casse automatiche, riduce la necessità di cassieri, ma richiede la presenza di personale per la manutenzione e per il supporto alla clientela e un discorso analogo vale per l’e-commerce e l’e-bankig: si riduce la necessità di lavoratori in alcuni ambiti, ma non si arriva mai a zero, per non dire delle nuove figure professionali, che in precedenza non esistevano e divenano poi indispensabili per il corretto funzionamento dei nuovi processi
- l’automazione è circoscritta ad ambiti limitati ed esiste una significativa quantità di “lavori umani” che al momento non appaiono automatizzabili – nessuno in giro pensa seriamente di sostituire i calciatori, gli attori, i musicisti o i ballerini con delle macchine così come non è al momento pensabile di osservare la scomparsa di barbieri, medici, meccanici, idraulici o simili, allo stato non solo non è pensabile che il numero di coloro che svolgono queste e simii mansioni si riduca in modo troppo rilevante rispetto agli standard ai quali siamo abituati, ma in taluni casi potrebbe anche aumentare (ad esempio quando gli standard dei paesi più poveri migliorano tipicamente occorrono più medici, insegnanti e operatori di servizi che prima non erano alla portata delle persone comuni)
Dunque il presupposto logico per la distribuzione di un reddito incondizionato, ossia un numero estremamente elevato di persone escluse dalla possibilità di ottenere un lavoro è infondato, poiché per quanto l’innovazione, consenta di produrre quantità sempre maggiori di beni e servizi con minore impiego di lavoro, questo “inconveniente” è mitigato e spesso, controbilanciato, dalla necessità di “nuovo lavoro” connesso con la modifica dei processi sociali e aziendali, dalle “nuove opportunità di consumo” rese possibili dall’avanzamento della tecnologia e, last but not least, dal fatto che coloro che diventano più ricchi grazie al progresso, hanno maggiori risorse da destinare ai consumi, agli investimenti e alla finanche beneficenza.
Se la storia dei robot che rubano il lavoro è una bufala, rimane il primo problema, inerente la “transizione”: è piuttosto difficile trasformare in tempi brevi un cassiere in un analista di Big Data, così come spostare qualcuno dal front office di una banca alla logistica di un operatore e-commerce.
Si comprende allora facilmente l’appeal di un “proiettile d’argento” come il reddito di dignità/inclusione /cittadinanza o quel che volete che si presti a diventare un comodo Jolly che in un colpo solo consenta di correggere le esternalità negative del progresso, rispondere alla crescente domanda di sicurezza, ridurre la povertà (che non guasta mai), tappare un po’ di buchi lasciati aperti da un welfare farraginoso e magari metterci al riparo dal “logorio della vita moderna”. Come tutte le risposte semplicistiche a problemi complessi, si tratta tuttavia di una soluzione inadeguata e gravida di sgradevoli conseguenze inintenzionali, prima ancora di scendere nel merito delle ineludibili questioni di sostenibilità finanziaria nel tempo.
Il principale motivo di inadeguatezza di questo tipo di soluzione deriva dall’applicazione ad un problema diverso da quello per il quale era stata concepita: se la maggioranza dei cittadini perde il lavoro, può avere un senso proporre una misura di tipo universale, se invece parliamo di un numero più limitato di soggetti, cominciano le complicazioni e finisce l’appeal della Killer App elettorale: se esiste anche chi non ha bisogno del contributo e, dunque, evitiamo di darglielo, allora non è più una misura universale (con buona pace della cittadinanza M5S), ma un sussidio contro l’indigenza (quindi misura d’Inclusione come piace al PD o di dignità con termine ripreso da Berlusconi) per il quale occorre stabilire criteri di eleggibilità (quando scatta? in base al reddito? contano i familiari a carico?) , sovrapposizioni con altre misure di welfare esistenti (es indennità di disoccupazione), nonché fare i conti con indicatori di situazione economica che possano intercettare anche redditi “non ufficiali”, per non aprire neanche un discorso sugli incentivi perversi (se lavorando guadagno 700€, mentre non lavorando lo stato me ne da 600€, val la pena lavorare?).
La realtà, dunque, è un po’ più complicata di come la propaganda elettorale non voglia lasciar credere e, i proclami trionfalistici, nella foga di promettere qualcosa da distribuire per tutti, finiscono con il fare confusione tra soluzioni anche radicalmente differenti come il reddito di cittadinanza o di base (quando esteso ai residenti sprovvisti di cittadinanza) che è universale e incondizionato e ad oggi esiste solo in Alaska e il reddito minimo garantito (che poi è quello che M5S, che di marketing chiama reddito di cittadinanza) che invece è circoscritto ad alcuni soggetti, condizionato al verificarsi di alcune condizioni e rientra tra le misure di integrazioni al reddito presenti in quasi tutti i paesi sviluppati.
In definitiva, proporre un po’ di reddito per tutti porta voti anche da chi probabilmente non riuscirà a beneficiarne, perché appare istanza meritoria da promuovere, mentre aggiungere l’ennesimo bonus limitato ad un gruppo di persone, individuato con criteri complicati, per il quale tutti dovremo sostenere degli oneri vende decisamente meno. Quando sentite in giro qualcuno parlare di “reddito di qualcosa” tenete a mente che, nella migliore delle ipotesi si tratterà appunto di un nuovo bonus e che l’unica grandezza che di certo avrà carattere universale sarà il prelievo fiscale (diretto o indiretto) necessario a finanziare il provvedimento.