Non aprite quelle porteIl disagio in treno dalla A alla Z: I di ingombro

Milano, una sera di febbraio, un giorno uguale a tanti altri. Aspetto il treno per tornare a casa dal lavoro e il treno, come al solito, non arriva. Cinque minuti, dieci minuti, un quarto d’ora di ...

Milano, una sera di febbraio, un giorno uguale a tanti altri. Aspetto il treno per tornare a casa dal lavoro e il treno, come al solito, non arriva. Cinque minuti, dieci minuti, un quarto d’ora di ritardo. Mentre la muffa comincia a ricoprire il mio corpo, una voce metallica annuncia un convoglio in arrivo. Non è il mio.

Per un attimo accarezzo l’idea di mettermi a piangere – sono stanca, c’è buio, vengo da una giornata difficile cominciata con soppressioni varie per un guasto agli impianti nella stazione di Sailcavolo e, per citare uno dei film più amati della storia del cinema, in Europa la gente muore di fame –, ma un rigurgito di dignità mi impone di tenere duro e mi suggerisce che, se proprio devo sfogarmi, è meglio battere con violenza sui tasti di un computer che inondare la banchina di lacrime.

Nasce così questa raccolta di istantanee, una sorta di dizionario semiserio dalla A alla Z (qui le altre lettere) delle mie disavventure in treno: sono le gioie (poche) e i dolori (tanti) dei miei spostamenti quotidiani, le delusioni e le insidie, le astuzie per non soccombere di fronte ai disagi. Perché anche se partire è un po’ morire, sopravvivere – per fortuna – si può.

I di ingombro

Come già nel caso precedentemente citato delle biciclette, uno dei grandi problemi che si affrontano in treno è la gestione dello spazio e dell’ingombro. I pannelli che abbelliscono i moderni convogli con i consigli per il quieto vivere recitano In treno mi piace trovare il sedile libero da borse e bagagli. Quanta verità. E quante speranze disattese. Perché se novantacinque viaggiatori abituali su cento sanno che, in caso di megaiperaffollamento – cioè quasi la routine –, è bene tenere la borsetta sulle ginocchia, ce ne sono cinque che credono che sia loro diritto far viaggiare la giacca comoda comoda nel posto accanto. E certe volte è addirittura l’ombrello fradicio a essere appoggiato con nonchalance sul sedile, ma forse quello è un tentativo di lavare via le macchie – un servizio per la comunità – e sono io a essere prevenuta.

Fatto sta che queste persone hanno una faccia tosta talmente spudorata, che fanno finta di niente finché non sei tu a chiedere che tutto l’armamentario venga spostato. E quando lo fai spesso ti guardano pure seccati, perché dai, proprio qui dovevi venire a rompere? Gli spazi angusti trasformano le persone nella peggiore versione di loro stessi e il treno non è da meno. Quando ti ritrovi stipato nel corridoio, con trentacinque altri in un metro quadro, odi gli altri, le loro borse ti disturbano, i loro zaini – che non si tolgono di dosso manco a pagare – ti infastidiscono. L’uomo che ti ritrovi attaccato a mo’ di koala ti irrita in un modo che non credevi possibile, la donna che pretende di tirare fuori il telefono dalla borsa tirando gomitate a destra e a manca per prenotare l’estetista ti diventa insopportabile. Vuoi il tuo spazio, vuoi respirare, ma lo spazio non c’è e crearlo non si può. L’unica soluzione – che poi soluzione non è – è l’accettazione della vicinanza, del calore umano e – se estate – dell’ascella altrui. E la sopportazione del fatto che non tutti capiscono che, se il treno è pieno da scoppiare, l’unica via per scendere non è spingere in malo modo, ma convincere quelli barricati davanti alle porte senza che sia la loro fermata a scendere anche loro per lasciar fluire.

Si è tutti il fastidio e l’ingombro di qualcun altro e diversi anni fa mi è successo un episodio che conferma come questa verità a volte sia portata all’estremo.

Era dicembre, forse aveva piovuto, il pavimento del treno era bagnato e io – accidenti a me – sono scivolata sui gradini interni della carrozza. Una caduta da cartone animato: mi sono alzata in volo e sono atterrata di schiena prendendo lo spigolo di un gradino dritto nella schiena, all’altezza dell’osso sacro. Un male incredibile, un dolore così acuto che non mi è nemmeno venuto in mente di preoccuparmi della figura di merda. Mentre ero per terra e pensavo a come fare per alzarmi, ho sentito distintamente la voce infastidita di un uomo che diceva a quelli dietro di lui: «Bisogna passare da un’altra parte perché qui c’è una che è caduta». Non una mano tesa, non un accenno di aiuto. Mi ha dato una mano un amico, come poteva, ma gli altri hanno solo cercato di scansarmi. Ancora oggi lo trovo incredibile. Ma così è. Ingombravo.

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