Lettera aperta di un candidato attorno alla “partecipazione democratica”
funzionale ad eleggere in Parlamento i più “onorevoli, prestigiosi e competenti” ( dice la legge)
candidati al CdA della RAI
Stefano Rolando
Nel 1985 sono stato nominato dal Consiglio dei Ministri dirigente generale alla Presidenza del Consiglio dei Ministri (allora nell’unico posto di ruolo “interno”, giacche’ l’Amministrazione, salvo la Direzione generale assegnata, era composta da “comandati”, tanto che dopo la riforma della Presidenza avvenuta nel 1988 risultavo il primo in graduatoria di quel ruolo mantenuto per dieci anni e dismesso per cambiamento volontario).
La “chiamata” corrispondeva ad una ricognizione di competenze specifiche sommata a vincoli di esperienza che allora costituiva la “forma” legittima di chiamata dall’esterno. Ero consapevole di non partecipare a un concorso e del fatto che la “valutazione” fosse stata fatta unilateralmente mirando alla corrispondenza funzionale dei requisiti.
Tra Stato e Regioni ho impegnato una ventina di anni di cosiddetto alto management. Mentre prima e dopo le mie esperienze sono state in aziende rilevanti delle comunicazioni: la Rai, in cui mi sono formato come dirigente; l’Istituto Luce in cui ho fatto il direttore generale; l’Olivetti di cui sono stato direttore centrale.
Dal 2001 sono professore universitario di ruolo, ancora in servizio, tra i pochi in Italia ad insegnare Politiche pubbliche per le comunicazioni, con una cinquantina di pubblicazioni in materia di media e comunicazione.
Nel 2018 ho presentato, in piena indipendenza e nel convincimento di altrettanta piena conformità alla legge, al Parlamento – Camera e Senato – candidatura per essere valutato idoneo a svolgere il ruolo di consigliere di amministrazione della Rai, pur sapendo che la scelta sarebbe infine avvenuta ad opera di parlamentari secondo parametri, secondo me giustificatamente, non solo tecnici.
Avrei ragionevolmente anche potuto sperare che la normativa (governo Renzi) che, riducendo i consiglieri da 9 a 7, ha modificato nel dicembre del 2015 la procedura disposta nel 2005 e ha proposto il “concorso partecipativo” come metodo per formare il perimetro di scelta da parte dei parlamentari, comportasse anche un passaggio valutativo (idoneità, comprovazione, titoli oggettivi, motivazioni, eccetera). Come avviene in tutto il mondo quando una istituzione, così alta poi, sceglie con metodo partecipativo. Anche perché il bando, magari in modo sibillino, parla di “procedura pubblica di selezione”, dove le parole hanno un senso e comportano tutte qualche regola.
Ma, abituato a leggere le norme, sapevo che quella legge non obbligava fino in fondo in modo così esplicito a valutare i profili. Anche se ciò sarebbe stato giusto, diciamo pure etico e contenuto in quella “procedura pubblica di selezione”, che paradossalmente può anche voler dire “sì a chi scrive tondo e no a chi scrive in corsivo”; ma che avrebbe più senso dire “cercando di capire la corrispondenza ai requisiti” (quindi valutando, che vincola in ambito pubblico a regole e metodo).
Tuttavia l’imprecisione della normativa è stata affrontata con dichiarazione pubblica dallo stesso presidente della Camera dei Deputati, on. Roberto Fico, che ha ritenuto di sostenere che era venuto il momento di “valutare le competenze e non le appartenenze“. A questo punto il decreto del 2015 ha avuto – politicamente e istituzionalmente – una interpretazione autentica interessante.
Ricordando sempre che il decreto legislativo del 2005 (che, sia chiaro, il bando di quest’anno esprime come riferimento generale) ha così inquadrato la fisionomia del profilo dei candidati “accettabili”: “Possono essere nominati membri del consiglio di amministrazione i soggetti aventi i requisiti per la nomina a giudice costituzionale ai sensi dell’articolo 135, secondo comma, della Costituzione o, comunque, persone di riconosciuto prestigio e competenza professionale e di notoria indipendenza di comportamenti, che si siano distinte in attività economiche, scientifiche, giuridiche, della cultura umanistica o della comunicazione sociale, maturandovi significative esperienze manageriali. Ove siano lavoratori dipendenti vengono, a richiesta, collocati in aspettativa non retribuita per la durata del mandato. Il mandato dei membri del consiglio di amministrazione dura tre anni e i membri sono rieleggibili una sola volta”.
La legge 28 dicembre 2015, n.220 interviene sul profilo, definendo le clausole di incompatibilità e sostituendo al comma 4, le parole: «riconosciuto prestigio e competenza» con le parole «riconosciuta onorabilità, prestigio e competenza». Per poi aggiungere: «La composizione del consiglio di amministrazione è definita favorendo la presenza di entrambi i sessi e un adeguato equilibrio tra componenti caratterizzati da elevata professionalità e comprovata esperienza in ambito giuridico, finanziario, industriale e culturale, nonché, tenendo conto dell’autorevolezza richiesta dall’incarico, l’assenza di conflitti di interesse o di titolarità di cariche in società concorrenti”.
Ho legittimamente pensato quello che si pensa, con certezza della procedura, quando si aspira ad upgrading in università, in una carriera ospedaliera, in una responsabilità pubblica: sarò dunque valutato. Ci sarà magari un nucleo tecnico o misto, un organo comunque regolato da imparzialità che, partendo da quel profilo normato, affonderà lo sguardo su storie complesse sollecitate da quella legge a mettersi al servizio di una composizione vincolata al coraggio dei proponenti e al diritto di scelta dei decidenti.
Ho pensato che sarei arrivato quinto, decimo o ventesimo attorno a un titolo e magari diversamente attorno a un altro titolo. Oppure che, dopo attenta analisi, il comitato tecnico insediato avrebbe segnalato ai parlamentari una short list con in evidenza i caratteri oggettivamente significativi dei percorsi più rispondenti alle parole “prestigio e competenza”. Che il citato articolo esprime nel concetto “possono essere nominati membri…”.
Uso la parola “coraggio” perché quando si è portata quasi a termine una carriera onorevole con molte comprovazioni, ci vuole ” coraggio” per vedersi valutare con altri nello stato di indipendenza e mettere in bilancio la possibilità di essere posposto a profili oggettivamente più robusti e mirati. Ma anche per mettere i decisori in condizione di avere argomentazioni attorno alla proposta procedurale dello stesso Presidente della Camera: “valutare la competenza“. Procedura che ha tuttavia una sua bellezza civile.
SI scopre adesso che i CV accolti dal Parlamento sono stati stivati senza alcun trattamento. Hanno cioè avuto solo un criterio di “valutazione”: quello dell’occhieggiamento, della guardatina, della sbirciata. Cioe’ quello di poter essere caso mai letti nel sito di Camera e Sanato e apprezzati o disprezzati oggettivamente dai curiosi, dai giornalisti o anche dai parlamentari decisori, ma questi ultimi senza alcuna procedura di valutazione, né specifica ne sommaria.
Il perché è pura retorica chiederselo. Perché il metodo decisionale ha riguardato alcune figure scelte in sede politica tra quelle partecipanti senza impegnare alcun criterio di comparatività circa le “competenza” (e se vogliamo anche circa le più controverse espressioni “onorabilità e prestigio”).
Non sta a me “valutare” , dico seriamente, i quattro nomi eletti ieri, con segni evidenti di “appartenenza” e segni non evidenziati dai valutatori di “competenza”. Dico solo – credo con sentimenti che rappresentano anche altri candidati – che tutti i non prescelti non sono passati attraverso le forme e il metodo di una “procedura pubblica di selezione”.
Dunque si torna al metodo di una volta, ma senza nemmeno i prerequisiti che appunto una volta erano vincolanti, ma proprio seguendo la logica di umiliare “per principio” sia la partecipazione che la competenza.
Per questo che, nel pur marginale dibattito che vi è stato attorno a questa vicenda, ricorre il giudizio di “carattere farsesco”, che fa male alle istituzioni, attorno a un percorso che ha reso del tutto inutile lo spunto partecipativo una volta tanto messo in atto, facendoci assistere a un rito che, fingendo la partecipazione, crede di prendere le distanze dai tempi in cui la “chiamata” avveniva in vituperate forme di unilaterale opzione.
Peccato che allora qualcuno a guardare che i requisiti di competenza alta corrispondessero a un dichiarato bisogno istituzionale c’era e se ne assumeva la responsabilità. Ora si fa credere che la scelta è fatta da una sorta di regia impersonale, una democrazia partecipativa , che appare senza fondamenti e che nuota, almeno per alcuni, nelle leggi di un’altra mitologia, quella della libertà della rete.