È un puzzle a incastro variabile quello che compone la galassia sovranista e antisistema in Europa. Tasselli di diverso peso e diversa misura, ognuno portabandiera dei rispettivi interessi nazionali, il più delle volte sconnessi l’uno dall’altro. Un universo in espansione – a giudicare dai sondaggi – nato però con un vizio d’origine: quello di una congenita disunione. Anche nei paesi dove si sono già presi Governi e Parlamenti, come in Ungheria e in Polonia, i movimenti populisti, nazionalisti ed euroscettici pagano il prezzo dell’eterogeneità, guardandosi fra loro con diffidenza e sospetto reciproco. Uomini politici di ispirazione ultranazionalista che costruiscono muri alle frontiere, che invocano la fine dell’Europa comunitaria, che erodono la democrazia con leggi atte a limitare la libertà d’espressione, che bandiscono le organizzazioni non governative. E poi, liberi da ogni ingerenza esterna, litigano allegramente fra di loro.
The Movement, il movimento internazionale lanciato da Steve Bannon per diffondere il populismo di destra in Europa, presenta già non poche crepe. In patria, l’ex stratega di Trump non gode più di grande popolarità, né tra gli elettori né tra i repubblicani: all’ultimo comizio per la campagna elettorale di Midterm a Buffalo, ad ascoltarlo c’erano appena 200 persone e nessun esponente politico. Ma a dare il colpo di grazia al suo neonato movimento nel Vecchio Continente è venuto l’annuncio di pochi giorni fa: il gruppo “Europa delle nazioni e della libertà” all’Europarlamento (Enf), di cui fanno parte la Lega, il Rassemblement national di Marine Le Pen e il Pvv di Geert Wilders, ha silurato l’uomo di Bannon a Bruxelles, il politico belga Mischael Modrikamen, dichiarandosi non disponibile per il momento ad aderire al suo progetto d’unione di tutte le forze sovraniste alle elezioni europee.
Ma andiamo per ordine. Donald Trump al grido America first ha incarnato più di ogni altro questa onda contestataria. Brandendo la fiaccola anti-establishment, il 45° Presidente degli Stati Uniti negli ultimi due anni si è eretto a paladino di questo blocco tutt’altro che omogeneo, mostrando al mondo che disubbidire si può, a torto o a ragione, ma si può. Sul continente americano la fiaccola è ora passata a Jair Bolsonaro, nel suo paese familiarmente definito “o Trump tropical”, eletto Presidente del Brasile il 28 ottobre con più 55% dei voti. Deputato dal lontano 1991, Bolsonaro si autoproclama ora campione della lotta contro la corruzione nel suo paese, a conferma del fatto che il nazionalpopulismo prende le mosse da uomini che arrivano alla ribalta dopo una lunga attesa passata ai margini del sistema politico nazionale.
“Il populismo nasce dalla sfiducia nei confronti delle istituzioni rappresentative. Appare storicamente nei momenti di rottura e si nutre delle paure che da essi nascono. Ne è un esempio evidente la mondializzazione, di cui le sfide migratorie sono una delle espressioni più forti. Le forze politiche che si definiscono comunemente progressiste vedono la mondializzazione come una straordinaria possibilità di crescita e di sviluppo. I movimenti populisti che attraversano l’Europa si sono intestati la battaglia per la salvaguardia della sovranità nazionale: un’aspirazione al sovranismo come reazione verso un mondo sempre più globalizzato”. (Dominique Reynié, Institut d’Études Politiques de Paris)
Sul campo di battaglia europeo il discorso sovranista o nazionalpopolare promette da tempo di rovesciare il sistema e di accendere nuove passioni fra l’elettorato. Nel giugno 2016 la picconata è inferta dal leader UKIP Nigel Farage con il suo referendum sulla Brexit. Gli eurofobi esultano, Trump gioisce. Da Salvini a Le Pen, la destra ultranazionalista e populista affila le armi per la distruzione dell’Unione Europea prossima ventura. E a Est come a Ovest riprende vigore l’idea di nazione, di uno Stato nazionale senza inquinamenti etnici, senza ingerenze esterne da parte di organismi sovranazionali.
Nell’Europa centro-orientale il capofila del fronte sovranista che punta, alle prossime europee, a ribaltare i rapporti di forza politici a Bruxelles è l’ungherese Viktor Orbán, cavallo di Troia degli antieuropeisti in seno al Partito popolare europeo. Già Primo ministro nel 1998 a soli 35 anni, raggiunge con il suo partito Fidesz il 52,73% dei voti alle politiche del 2010, conquistando i due terzi dei seggi del Parlamento ungherese. Forte del successo elettorale, Orbán si fa promotore di una contestata riforma costituzionale, che consolida il suo potere. E parte all’assalto del cuore dell’Europa, brandendo il vessillo della sua “democrazia illiberale” di ispirazione nazionalista e confessionale.
Con Orbán si rafforza la linea dura del “gruppo di Visegràd”, composto da Ungheria, Polonia, Cechia e Slovacchia, in direzione ostinata e contraria su quasi tutti i temi costitutivi del futuro dell’Unione Europea e contro i nuovi piani d’integrazione franco-tedeschi. Al centro dell’attacco nella Repubblica Ceca campeggiano Milos Zeman, russofilo nazionalpopulista xenofobo di Praga, e Andrej Babiš, leader del movimento populista Ano 2011 (Alleanza del cittadino scontento), il movimento anti-establishment dai toni radicali su migranti e sicurezza.
In Polonia le forze nazionalpopuliste ruotano attorno al giovane Capo di Stato Andrzej Duda, affiancato dallo storico leader della maggioranza sovranista Jaroslaw Kaczynski, attempato ma sempre carismatico e influente, colui che aveva cercato in tutti i modi di bloccare la nomina del suo connazionale Donald Tusk alla Presidenza del Consiglio europeo. A Varsavia, la staffetta antieuropeista nel governo è passata da Beata Szydlo, che con la sua verve nazionalista ed euroscettica aveva condotto il partito Giustizia e Libertà (Pis) al trionfo elettorale del 2015, al giovane premier Mateusz Morawiecki, l’ex banchiere ora impegnato a tranquillizzare gli investitori internazionali sulla stabilità della Polonia, nonostante i deragliamenti con Bruxelles sulle quote di rifugiati e sul rispetto dell’indipendenza della magistratura.
Un discorso a parte è necessario per l’ultradestra in Germania, che dopo i test elettorali in Baviera e in Assia spopola nei sondaggi e getta un’ombra minacciosa sulle elezioni europee del 23-26 maggio 2019. Fondata nell’aprile 2013 da una falange di nostalgici ed euroscettici, Alternative für Deutschland è diventata progressivamente il punto d’aggregazione dell’estrema destra tedesca. Con il 12,6% alle politiche del settembre 2017 lo schieramento guidato da Jörg Meuthen, Alexander Gauland e Alice Weidel, è il primo partito ultranazionalista di destra a entrare nel Bundestag dal 1949. Ora sta vivendo una fase di radicalizzazione indiscutibile. Secondo uno studio dell’Istituto per la ricerca interdisciplinare sul conflitto e la violenza (Ikg) dell’Università di Bielefeld, il 47% degli intervistati che votano AfD propende per il nazionalismo, il 36% manifesta ostilità verso gli stranieri, il 20% appoggerebbe la dittatura, il 10% nutre opinioni antisemite, il 9% propugna il darwinismo sociale e il 20% relativizza il nazionalsocialismo.
Il volto nuovo dello schieramento nazionalpopulista in Francia è Nicolas Bay, vicepresidente e anima dinamica del Rassemblement National, co-fondatore del gruppo dell’Europarlamento “Europa delle nazioni e delle libertà”. Le sue interviste a France Inter si susseguono a ritmi vertiginosi, con l’intento di serrare le fila del movimento di Marine Le Pen in vista delle prossime europee del maggio 2019. Arrivata con uno storico 21,5% di voti al ballottaggio con Emmanuel Macron nell’aprile 2017, la Marine nazionale ha dovuto incassare il tonfo del 13,2% alle legislative del giugno seguente, segnando da quel momento il passo rispetto al dinamico Nicolas Bay, che insidia ora la sua leadership del fronte sovranista in Francia.
I populisti sono già al potere in Italia, Finlandia, Danimarca, Austria, nel gruppo dei quattro di Visegràd. In vista delle elezioni europee del maggio 2019 questo composito fronte sovranista affinerà progetti e strategie per dare la spallata definitiva alle istituzioni di Bruxelles. E non mancherà una buona dose di propaganda e di retorica strumentale. Come cercheranno di svincolarsi da quello che essi stessi bollano come “un impero europeo controllato dai burocrati di Bruxelles”? Il ripudio assoluto dell’Unione Europea lascerà il posto, nell’immaginario euroscettico e nelle piazze del Vecchio Continente, alla proposta di un’alleanza di nazioni libere? Le forme che prenderà questa offensiva saranno oggetto del prossimo articolo di questo blog. Con il seme della discordia nel proprio codice genetico, la composita galassia sovranista dovrà volente o nolente affinare la propria strategia. Altrimenti rischierà che il tanto atteso appuntamento elettorale finisca per disperdere ancora una volta i tasselli di questo puzzle in modo frammentario e subalterno, come già avvenuto nella presente legislatura.
Di prossima pubblicazione su questo blog:
La galassia sovranista in Europa. Strategie politiche e retorica strumentale
Ultradestra in Germania, a Magdenburg l’asse fra AfD e Pegida
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