Il tornioSiamo Stati tanto Uniti. L’America a rischio secessione?

All’indomani della consultazione di Midterm, il conflitto politico è destinato a radicalizzarsi, aprendo scenari inediti nei prossimi due anni di mandato presidenziale Cosa farà ora l’America che ...

All’indomani della consultazione di Midterm, il conflitto politico è destinato a radicalizzarsi, aprendo scenari inediti nei prossimi due anni di mandato presidenziale

Cosa farà ora l’America che non si riconosce nell’attuale Presidente degli Stati Uniti? Quali forme assumerà il dissenso che soffia sul paesaggio politico americano? Ieri il New York Times parlava chiaramente di una “guerra partigiana” che si profila all’orizzonte, in cui un “Presidente combattivo per natura” sarà chiamato a fronteggiare gli attacchi di un’opposizione sempre più aspra, nel paese e nel Congresso. Un Presidente che dovrà ora vedersela non più solo con scomodi, ma innocui cronisti in conferenza stampa, ma con un ramo del Parlamento che nelle sue inchieste potrà citare in giudizio testimoni obbligati a presentarsi subpoena, pena l’incriminazione.

Anche il Washington Post disegna un “Presidente in assetto di guerra”, pronto a contrattaccare su tutti i fronti, se messo nell’angolo da investigazioni fiscali e inchieste parlamentari. La ruvidità del confronto è marcata dalle dimissioni forzate del ministro della giustizia Jeff Sessions e dalle centinaia di manifestazioni spontanee in solidarietà al procuratore speciale Robert Mueller, titolare dell’inchiesta sulle ingerenze russe nelle elezioni 2016, possibile oggetto di un prossimo attacco presidenziale.

Di nuove forme di secessione e di una seconda guerra civile si parla già da tempo. La prima a profilare il rischio che l’incendiaria politica di Trump verso le minoranze avrebbe spaccato in due gli Stati Uniti d’America è stata Robin Wright su The New Yorker . Il voto del 6 novembre ha ora consegnato un’America ancora più divisa. Due legioni, schierate una di fronte all’altra, in disaccordo su tutto. Una prevalentemente bianca, avanti con gli anni, rurale e conservatrice, l’altra più colorata, giovane, urbana e progressista. E Trump, con la personalizzazione dello scontro elettorale, con l’aspra campagna da lui stesso modellata sul conflitto razziale e sull’identità americana, è riuscito ad avvampare passioni politiche da una parte e dall’altra della barricata, sia nei suoi sostenitori che nei suoi avversari.

La strategia del fronte anti-Trump è chiara da tempo e ora, dopo che i democratici hanno riconquistato la maggioranza alla Camera, la pressione sulla Casa Bianca aumenta. Il cuore di questa strategia è quello che Heather Gerken della Yale Law School chiama nuovo federalismo progressivo, “new progressive federalism” e fa perno sul Decimo Emendamento della Costituzione statunitense, in base al quale i poteri che non sono esplicitamente affidati al Governo federale sono riservati ai singoli Stati o al popolo.

In questa prospettiva, gli Stati dell’East Coast a maggioranza democratica potrebbero divenire il fulcro di un’azione di governo alternativa e contrapposta alla Casa Bianca, avocando a sé, proprio in nome del Decimo Emendamento, una legislazione progressiva a livello statale, sottraendola al controllo federale. In questo modo, le “minoranze nazionali” costituite dai milioni di cittadini estranei o antagonisti all’agenda politica trumpiana verrebbero a costituire a livello locale, nei singoli Stati federali, tante “maggioranze progressiste” in grado di trasformare in legge dei singoli Stati progetti di riforma impensabili a livello federale, come iniziative legislative sul cambiamento climatico, sul controllo delle armi da fuoco, sui diritti civili delle minoranze e delle coppie omossessuali, sulla depenalizzazione delle droghe leggere.

ll federalismo progressista è la nuova arma in mano all’America che non si riconosce nelle politiche di Donald Trump. Aggirando Washington, le forze progressiste diventano attori politici determinanti a livello locale.

Un forte contrappeso, destinato a generare conflitti e tensioni politiche, come al tempo della Guerra di Secessione, quando però la spinta progressista veniva dal Governo Federale di Washington, in opposizione alla politica reazionaria degli Stati del Sud, come l’Alabama e il Mississippi. Non a caso c’è chi, come l’esperto di sicurezza nazionale Keith Mines, stima su Foreign Policy che gli Stati Uniti saranno chiamati nei prossimi anni a fronteggiare su larga scala violenti conflitti politici e chi, come Jonathan Taplin sul numero di Harper’s ora in edicola, sostiene che “un tale squilibrio di potere può condurre a una seconda guerra civile”.

Donald Trump non ha creato questa incredibile polarizzazione, ma di certo la sua politica divisiva e pugnace non ha fatto altro che esacerbarla. Incline alla lotta per sua stessa natura, un Presidente azzoppato, ma pur sempre combattivo, è posto ora, dopo le consultazioni dei Midterm, di fronte alla scelta se innescare una pericolosa escalation del conflitto politico o se percorrere la via di una conciliazione finora sconosciuta alla sua presidenza.

@LucianoTrincia

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