Ponte sull\'AfricaLa persuasione cinese alla conquista dell’Africa

«Il cinema è il maggior vettore inconsapevole di propaganda nel mondo di oggi. Un film può standardizzare idee e abitudini di una nazione. Poiché le immagini sono fatte per soddisfare le richieste ...

«Il cinema è il maggior vettore inconsapevole di propaganda nel mondo di oggi. Un film può standardizzare idee e abitudini di una nazione. Poiché le immagini sono fatte per soddisfare le richieste del mercato, esse riflettono ed enfatizzano le tendenze popolari, piuttosto che stimolare nuove idee e nuove opinioni».

Lo scriveva nel 1928 il pubblicitario statunitense di origine austriaca Edward Bernays. Nato a Vienna e parente di Freud, delle cui lezioni fece tesoro, è considerato il primo spin doctor del mondo. Il suo celebre libro Propaganda resta ancor oggi un riferimento per capire la manipolazione psicologica delle masse, «le cui abitudini e opinioni sono orientate da meccanismi invisibili che costituiscono il potere nascosto del nostro paese. In sostanza noi siamo governati, le nostre menti sono modellate, i nostri gusti formati e i nostri pensieri suggeriti in larghissima misura da persone di cui non conosciamo nemmeno il nome».

Dicendo «il nostro paese» Bernays si riferiva agli Stati Uniti, evidentemente maestri, in patria e fuori, dell’arte manipolatoria soprattutto attraverso il cinema e la diffusione spinta della lingua inglese. Basti pensare alle acclarate connessioni tra il Pentagono, la CIA e le majors di Hollywood, quasi esplicite in film come The Day After o Top Gun o l’apparentemente innocuo Aladin, in realtà vettore di idee stereotipate sul mondo arabo al punto che la sua prima versione dovette essere rivista e rimontata perché troppo in odore di razzismo. E basti citare due percentuali: in Europa il 92% degli studenti impara una seconda lingua (in prevalenza l’inglese). Negli USA, gli studenti che fanno lo stesso sono il 20%.

Il colonialismo culturale americano ha evidentemente avuto successo e fatto scuola. Ma ora, mentre l’America di Trump sta progressivamente abbandonando il suo ruolo di leader globale a favore di un’inquietante autoreferenzialità, è la Cina a prenderne il posto percorrendo la strada inversa.

Questo è particolarmente visibile in Africa, dove l’Impero di Mezzo è diventato il primo partner strategico e commerciale del continente grazie a finanziamenti agevolati che il centro studi americano John Hopkins stima in ben 143 miliardi di dollari dal 2000 a oggi. Tale enorme disponibilità finanziaria ha permesso e permette a Pechino di praticare un sottile neocolonialismo in cui si mescolano investimenti massicci in infrastrutture, trasferimento del surplus manifatturiero di prodotti a basso costo, alleanze militari, vendita di armi, immigrazione di operai e contadini cinesi per ovviare alla sovrappopolazione del Paese asiatico e accesso privilegiato alle risorse naturali africane.

A condire questo piatto, che comincia a risultare indigesto agli africani più attenti e lungimiranti, ora c’è anche la cultura. O la sua versione più populistica, cioè idonea a influire sulle masse. Mentre gli americani nel loro periodo d’oro usavano il cinema, la Cina si è adattata ai tempi e predilige la televisione. I due network cinesi CCTV News Channel e China Daily hanno da tempo canali completamente dedicati all’Africa. E gli investimenti cinesi si estendono anche a una grande varietà di media tradizionali e online.

A completare il panorama delle similitudini tra la pervasività culturale americana d’altri tempi e quella cinese nell’Africa di oggi ci sono altri due elementi essenziali: il cibo e la lingua.

Se anni fa il Big Mac è stato il simbolo trionfante della globalizzazione intesa come cambio di gusti e di costumi (quando mai, prima di McDonald, da noi si concepiva anche lontanamente l’idea di pasto veloce o fast food?), ora in Africa lo stesso ruolo è riservato agli involtini primavera e all’anatra laccata.

Lo scrive senza mezzi termini un quotidiano cinese, il «South China Morning Post», in un articolo del maggio 2018 relativo al Senegal, uno dei Paesi in cui la Cina è più attiva: «Il cibo è un altro aspetto fondamentale della cultura cinese con il quale gli africani si stanno familiarizzando. Dakar per esempio ospita molti ristoranti cinesi, che fanno servizio di catering sia agli africani sia ai cinesi che lavorano nel Paese. Ci sono inoltre un mercato e molti negozi di alimentari lungo il Boulevard du Centenaire, che comincia a essere noto come la Chinatown di Dakar».

Insomma a Parigi non rimane nemmeno più la toponomastica. E tra un po’ rischierà di sparirle anche la lingua. Lo stesso articolo del «South China Morning Post» aggiunge infatti con bella sicurezza, citando uno studioso del tema: «Le lingue degli antichi potentati coloniali – francese, inglese, portoghese – oggi sono a rischio. Di qui a cinquant’anni, la lingua franca dell’Africa sarà il cinese».

Se non ci saranno cambiamenti strada facendo, il giornalista e le sue fonti potrebbero avere ragione. Dal 2014 il mandarino si insegna già, come lingua opzionale, in alcune scuole del Sudafrica. Nel 2018 l’Uganda ha seguito l’esempio di Pretoria. E nel 2020 il Kenya diventerà il primo paese a insegnarlo in tutte le scuole di ogni ordine e grado, senza eccezione. Già ha iniziato, a dire il vero. Sono rimasti stupiti, lo scorso aprile, due giornalisti della CNN che stavano facendo un servizio nella nazione del Corno d’Africa e lo hanno aperto così: «In una classe piena di luce, circa venti bambini stanno cantando entusiasti l’inno nazionale cinese. Peccato che la scena non si svolga in Cina, ma a ottomila di chilometri di distanza, presso la scuola elementare Lakewood di Nairobi…».

Ad affiancare gli insegnanti di ruolo, ci sono e ci saranno in tutti questi paesi i tutor cinesi degli Istituti Confucio, sorta di Istituti Italiani di Cultura ma molto più diffusi e con un budget certamente più elevato. Ora in Africa gli Istituti Confucio sono 48 e fanno della Cina la seconda “potenza culturale” del continente, dopo la Francia. Risultato notevole se si considera che i nostri vicini transalpini hanno controllato per secoli il più vasto impero coloniale africano, mentre Pechino è partita da zero.

Questa invadenza, che si vuole suadente, non fila tuttavia liscia come l’olio. Più e meglio di noi, gli africani riconoscono la “puzza di bruciato” del colonialismo perché è un odore cui sono familiari da secoli. Giusto per citare un esempio, Wycliffe Omucheyi, presidente della Kenya National Union of Teachers (KNUT), ha dichiarato che il Governo del suo paese sta correndo troppo nell’insegnamento generalizzato del mandarino e che, al posto di questa lingua, gli studenti dovrebbero invece imparare le lingue indigene africane. Gli dà ragione il bel mensile «Africa Report» che scrive: «Questa crescente presenza della Cina attraverso i media e gli Istituti Confucio serve solo a stabilire l’egemonia culturale cinese nel continente a discapito delle originarie culture africane».

Dalla Gran Bretagna esprime dubbi sull’operazione anche la London School of Economics, attraverso la voce di Ilaria Carrozza, ricercatrice italiana che studia le relazioni tra Africa e Cina e dichiara: «La Cina spera, attraverso lo studio del mandarino, di accrescere il suo soft power in Africa. Se ci riuscirà, avrà più potere d’influenza. Anzi, non solo di influenza ma di persuasione e attrazione. Senza arrivare a una caccia alle streghe, si tratta di un problema che i Governi e le istituzioni africane dovrebbero valutare, caso per caso, molto attentamente».

Questi episodi, antichi e recenti, inducono a due riflessioni.

La prima riguarda noi stessi, italiani ed europei. In tutto questo fervore di iniziative – pur se in gran parte criticabili nelle presunte buone intenzioni, di cui è notoriamente lastricata una strada famosa – noi dove siamo? In che modo pensiamo di relazionarci con un continente che avrà un peso sempre maggiore nel nostro futuro, in ragione delle sue risorse naturali, delle sue economie in crescita stabile, della giovane età media della sua popolazione? Quando smetteremo di considerare l’Africa qualcosa di molto lontano che si colloca a metà strada tra l’esotismo e la minaccia? Quando ci decideremo a beneficiare dei legami storici e psicologici che ci uniscono a questa parte del mondo, molto più di quanto lo siano i cinesi, per costruire in maniera intelligente e strategica nuove opportunità?

La seconda riflessione è relativa invece alla cultura. Per dirla in sintesi con una citazione di Tiziano Terzani «la cultura è la ricerca dell’io pensante». È cioè un insieme di conoscenze che si attivano solo se, rielaborate in modo soggettivo, conducono una persona ad arricchire il suo spirito, la sua libertà di giudizio e il suo contributo alla società. Se questo è vero, ne deriva che ogni forma di imperialismo culturale, che di sua natura tende invece all’appiattimento e al consenso acritico, è la negazione stessa della cultura.

In Europa ne siamo consapevoli, così come ne è consapevole la nuova classe dirigente africana, che ho il privilegio di conoscere da vicino e certamente, memore del passato, non vuole più cadere nella trappola di un neocolonialismo intellettuale invasivo, qualunque ne sia l’origine. In sostanza, non bastano molti investimenti e alcuni canali televisivi per conquistare l’Africa.

A questo punto le due riflessioni si legano tra loro. Credo sia proprio la cultura, intesa nella sua accezione originaria e non come soft power, la nostra potenziale chiave d’accesso primaria al continente africano.

Se saremo capaci di offrire all’Africa il nostro vasto sapere – artistico, letterario, antropologico, storico ma anche economico, commerciale e tecnologico – e di comprendere e rispettare il loro, somma di antiche tradizioni e giovani energie, allora avremo un vantaggio competitivo certo. E potremo costruire un futuro promettente sia per gli africani, che questo domandano, sia per noi che abbiamo un disperato bisogno di mercati, di risorse naturali e di idee nuove: quelle che sempre nascono dalla contaminazione paritetica e fruttuosa tra culture diverse.

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