Il campanello d’allarme è suonato per i giovani, l’Ocse evidenzia una preoccupante deriva culturale. «Gli studenti italiani non sanno leggere. Hanno minori capacità a comprendere un testo rispetto alla media dei Paesi Ocse, sono in linea con la media Ocse in matematica ma sono molto scarsi in scienze, dove hanno ottenuto un punteggio inferiore di ben 21 punti rispetto ai coetanei dei Paesi Ocse e di 13 punti rispetto alla precedente rilevazione in Italia». Questa è la situazione che emerge dal Rapporto Ocse Pisa (acronimo di Programme for International Student Assessment), una indagine internazionale su base triennale che misura le competenze in lettura, matematica e scienze degli studenti quindicenni di 79 Stati partecipanti, di cui 37 Ocse. È del tutto evidente che le Istituzioni devono prendere coscienza del problema al fine di trovare soluzioni in tempo reale. La mancanza di interesse è probabilmente dovuta alla formazione, agli insegnanti, alla famiglia. Non possiamo tralasciare l’avvento del digitale che spesso diventa un problema mentre è un valore aggiunto soltanto se bene utilizzato. Manca una cultura del digitale, la scuola non insegna ai ragazzi le potenzialità delle nuove frontiere del web. Padre Tiziano Repetto, milanese, gesuita, una laurea in Lettere e un dottorato in Scienze Sociali conseguito alla Pontificia Università Gregoriana, attualmente si occupa di Comunicazione e Pastorale della salute, ha un canale YouTube e diversi profili social, solleva una riflessione per tentare di comprendere le motivazioni del deficit culturale dei giovani.
Quale momento storico stanno vivendo i giovani?
«Vorrei partire da alcuni dati oggettivi, ossia da un’indagine conoscitiva recente, realizzata da CAMPUS/SALONE DELLO STUDENTE e il Dipartimento di Psicologia dei processi di sviluppo e socializzazione dell’Università La Sapienza su un campione di 2130 studenti degli ultimi anni della scuola secondaria di secondo grado, pubblicata sul settimanale Panorama. Questa ricerca afferma che i genitori di oggi appaiono sostanzialmente sconfitti perché non sono riusciti a costruire un mondo migliore, rispetto a quello degli anni ’60 e ’70, anni in cui il benessere economico era tangibile e vi era lavoro per tutti. A questo si aggiunge anche la crisi strutturale che induce molti a non poter nemmeno pianificare la loro vita sul medio periodo. Tuttavia, in modo abbastanza sorprendente, dalla ricerca risulta che in definitiva i giovani apprezzano le loro figure genitoriali – a prescindere dall’integrità del nucleo familiare, spesso disgregato – nonostante lo scarso successo che hanno avuto sul piano socio-economico, probabilmente perché in un mondo in cui i modelli appaiono sempre più virtuali e/o artificiali, i modelli reali, anche se imperfetti o deficitari, vengono apprezzati più di quelli virtuali, come per esempio gli influencer o i blogger. Ancora, questa ricerca mostra che i giovani hanno una scarsa stima della classe dirigente italiana, vista come poco solidale e discriminatoria riguardo alle diversità, anche etniche. Ovviamente, poi, i giovani sono preoccupati dalla scarsità di lavoro, visto che il tasso di disoccupazione giovanile sfiora il 50%, però non cercano un posto di lavoro qualsiasi ma uno che lasci loro sufficiente tempo da dedicare alle relazioni sociali e alla famiglia. A questo, si aggiunga che un buon 40% dichiara di credere in Dio. Quindi, direi che il risultato dell’indagine denota una certa saggezza di fondo che caratterizza i giovani, nonostante la loro età e la loro inesperienza, in un contesto non certo favorevole, il che sicuramente apre la porta a una speranza concreta sul futuro del mondo, nonostante le distorsioni e le ingiustizie che quotidianamente vengono narrate dai media».
Il ruolo del digitale come influisce sulla crescita e sulla cultura?
«Ho scritto la mia tesi per la docenza su Marshall McLuhan, il sociologo del “Villaggio globale”. Ora, il suo allievo prediletto, Derrick de Kerckhove, sostiene che siamo alla quarta rivoluzione industriale. La prima portò il vapore nell’industria, con la conseguente meccanizzazione di molte attività produttive; la seconda vide l’elettricità che modificò il rapporto tra il giorno e la notte, con la conseguente modifica dei cicli di produzione; la terza riguarda la digitalizzazione e l’informatizzazione con le conseguenze che tutti conosciamo; ora siamo alla quarta ossia alla sharing economy, il cui nucleo fondante sono le piattaforme social. Oggi si tende alla condivisione, cioè a impiegare beni e servizi in comune privilegiando la relazione tra utenti, ossia orizzontale, prescindendo dal rapporto verticale tra fornitore e utente, grazie all’iperpotenza dei mass media sociali. Tale modo di procedere, se continua in modo positivo e proficuo, sarà in grado di mettere in crisi il capitalismo, appunto perché il punto di forza non sarà più centrato sulle aziende, ma sugli utenti. Quindi, per rispondere alla sua domanda, stiamo tornando a un’economia del “baratto” la cui componente essenziale è la fiducia reciproca, perché devo presupporre che chi scambia un bene o un servizio con il mio bene o servizio sia una persona corretta, non un imbroglione o un opportunista. Pertanto, occorre che la nuova comunità abbia caratteristiche di affidabilità, maturità, serietà, il che come sottolinea De Kerckhove è straordinario…».
Le nuove generazioni hanno difficoltà nel trovare un lavoro. Come devono proporre la propria professionalità?
«Resto stupefatto – non trovo altro termine – quando leggo storie di successo riguardanti i giovani blogger, influencer, eccetera. E non parlo di ragazzi che portano a casa un migliaio di euro al mese, ma di quelli che guadagnano centinaia di migliaia se non milioni di euro all’anno. Sono stupefatto ma anche un po’ preoccupato, nel senso che si sta perdendo quella “manualità” che da sempre ha caratterizzato l’essere umano nelle sue attività produttive. Già Dante nell’Inferno, rifacendosi ad Aristotele, sostiene che l’arte, cioè il lavoro manuale umano, conduce a perfezionare la natura, la quale natura procede dalla mente e dall’atto di Dio e la imita nel suo procedimento. Il lavoro manuale e la natura sono le sole fonti legittime della produzione e della ricchezza. Nelle professioni digitali vedo, in generale, poco “lavoro” e poca “natura”. Non vorrei che queste attività produttive venissero lasciate agli immigrati, sfruttati per una manciata di euro al giorno. Quindi, sarebbe desiderabile che i giovani intraprendessero attività lavorative “classiche” o tradizionali secondo i loro interessi e vocazioni specifiche: l’agricoltura, l’artigianato, il vestiario, gli accessori, la produzione tecnologica per realizzare prodotti e servizi di qualità, che poi possono essere tranquillamente commercializzati via web. Ma occorre avere qualcosa da vendere, oltre all’immagine e ai consigli per gli acquisti. Se tutti diventano web designer o influencer, che cosa mangeremo o con che cosa ci vestiremo?».
La formazione che ruolo dovrebbe svolgere?
«Ad un certo punto dei miei studi, mi occupai dei riti di iniziazione, intesi come l’insieme dei riti e delle cerimonie con i quali si sancisce il passaggio di un individuo o di un gruppo da uno status a un altro. Questi riti iniziatici prevedono in genere tre fasi: la separazione dalla famiglia, un periodo di formazione e prove da superare, infine l’aggregazione alla comunità degli iniziati, ossia degli adulti. Tali riti a volte possono essere anche molto impegnativi e hanno lo scopo specifico di preparare i giovani alla vita, sancendo il loro passaggio alla comunità degli adulti. In sostanza, si afferma che chi ha superato tali prove, non dovrà temere nulla nella vita. Diciamo che oggi manca questo processo che sancisce il passaggio all’età adulta degli adolescenti, che quindi restano tali per molto, molto tempo, ben oltre i trent’anni, coccolati e vezzeggiati nelle famiglie, spesso privi di reali responsabilità. Una volta, per i giovani maschi vi era il servizio militare, che per molti versi offriva questo tipo di iniziazione; separava i ragazzi dalle famiglie, insegnava loro ad essere autosufficienti, magari sopportando episodi di “nonnismo” a volte pesanti, etc. Nell’ambito del servizio militare, ho potuto constatare che coloro che vivevano le esperienze più estreme, come per esempio i paracadutisti che si lanciavano da migliaia di metri da terra, o i marinai che andavano per mesi su una nave, poi risultavano essere le persone più equilibrate, affidabili, attente ai bisogni della comunità, leali e generose. Ora tutto questo non esiste quasi più. La Cresima della Chiesa cattolica, può essere considerato un rito di iniziazione, che però sussiste a livello simbolico e invoca un’effusione dello Spirito Santo sul cresimando, ma non ha prove concrete da proporre. Forse anche negli Scout si trovano ancora prove di questo genere, ma tutto sommato i giovani che fanno queste esperienze sono una piccola minoranza. Alcune comunità cristiane, come i Mormoni, invece, hanno ancora queste prove; per esempio, i giovani sono chiamati, al termine degli studi, a girare il mondo per predicare la loro fede per almeno un anno, al termine del quale iniziano a lavorare. Personalmente, posso dire di avere vissuto un’esperienza iniziatica straordinaria, anzi, due, che consiglierei a tutti i giovani, maschi o femmine: all’inizio della mia vita religiosa nei Gesuiti, mi fu chiesto di compiere un pellegrinaggio a piedi, senza denaro in tasca, senza dire che ero un chierico gesuita. Quindi, assieme a un compagno percorsi oltre 400 km chiedendo vitto e alloggio. Il primo pensiero, al termine di quel pellegrinaggio fu: “Sono riuscito a fare questo, di che cosa avrò timore?”. Avevo sperimentato la Provvidenza sulla mia pelle. Precedentemente, prestai anche il servizio militare nei Bersaglieri, altra esperienza di separazione dalla famiglia e di maturazione durante il quale fui inviato in Libano, in occasione della Missione di pace internazionale, nel 1982. Queste due esperienze, una religiosa e una laica hanno contribuito grandemente a formare il mio modo di vivere ancora oggi, pur con i miei limiti e i miei difetti, e sono ben lieto di averle vissute».
Separazioni, abbandono, solitudine caratterizzano il XXI secolo. Come reagire a questa deriva sociale?
«Iniziamo dalla solitudine. Non esiste praticamente alcun giovane che non abbia un profilo sui social. Tutti o quasi hanno la loro pagina, con foto, pensieri, riflessioni, etc. Ma non basta per vincere la solitudine. Anzi, spesso i messaggi che inviano sono proprio delle richieste di aiuto per superarla. Probabilmente, i giovani dovrebbero imparare a trasformare la solitudine in un’opportunità per scoprire se stessi, crescere lentamente per poi cercare il contatto e proporsi in modo maturo e serio. Ma per fare questo occorre una persona esperta che li assista. Ha presente i film che hanno come protagonisti i giovani che vogliono diventare campioni di arti marziali? Hanno sempre un saggio orientale che li guida e fa il loro tutor magari chiedendo loro di compiere azioni banali: ricordo il famoso “metti la cera, togli la cera” (Sorride). Lo stesso dovrebbe accadere nella vita quotidiana. La Chiesa potrebbe rivestire questo ruolo, ammesso che i religiosi e le religiose siano abbastanza ben formati ed equilibrati per ricoprire questo ruolo. Le separazioni e l’abbandono: circa il 50% delle unioni termina con una separazione. Io ho una teoria personale, forse “complottistica” ma tutto sommato plausibile: la società capitalistica favorisce il divorzio o in generale le separazioni delle coppie perché gli individui da soli sono più manipolabili e poi perché due individui separati consumano maggiormente che una coppia, quindi avranno bisogno di due automobili, due assicurazioni, due alloggi distinti, etc. mentre una famiglia solitamente ha una sola auto, un’assicurazione, un alloggio e così via. Si è recentemente giunti al “divorzio breve” appunto per favorire tale andamento, che rende più rapida e meno costosa la separazione. A questo si aggiunga che alcune coppie, pur andando d’accordo, si separano per abbassare l’imposizione fiscale… In generale, la separazione è un trauma perché rappresenta la fine di un progetto di vita comune, in cui si era creduto e che si sperava sarebbe durato per sempre. Quindi è a tutti gli effetti equiparabile a un lutto. Pertanto, occorre istruire le giovani coppie che stanno per unirsi in un progetto di vita comune soprattutto a evitare di giungere a una separazione, con tutti i mezzi disponibili, non ultimo il ricorso a una psicoterapia. Se fossi un parroco, organizzerei corsi prematrimoniali incentrati soprattutto sulle strategie da mettere in pratica per evitare di giungere alla separazione, che, tra l’altro, ha effetti dolorosi soprattutto sui figli. Lo stesso dovrebbe fare lo Stato per chi si unisce civilmente. In assoluto, reputo che una così alta percentuale di separazioni riposi su una bassissima propensione alla sopportazione delle avversità e all’incapacità di sacrificarsi dei giovani, probabilmente per i motivi detti sopra, ossia deresponsabilizzazione, una certa immaturità affettiva, etc. Da ultimo, mi consenta una riflessione a carattere religioso: se l’unione dell’uomo e della donna è l’immagine e la somiglianza di Dio, come è scritto nel Genesi, la perdita del concetto di Dio porta anche a una perdita del valore da attribuire alla loro unione. In sostanza, meno si crede in Dio, meno si è propensi a realizzare un’unione che ne rappresenti l’immagine e la somiglianza su questa terra».
Francesco Fravolini