Millennials10 Lezioni che (Forse) Stiamo Imparando in Tempi di Psicosi da Coronavirus

Perché dall’ottimismo non si può guarire, ma si può apprendere. di FILIPPO LUBRANO, con LEONARDO STIZ Dato che è impossibile non parlarne, almeno dividiamoci i ruoli. Ai medici le sentenze sull...

Perché dall’ottimismo non si può guarire, ma si può apprendere.

di FILIPPO LUBRANO, con LEONARDO STIZ

Dato che è impossibile non parlarne, almeno dividiamoci i ruoli. Ai medici le sentenze sulle mortalità, agli economisti quelli sulle ricadute economiche, ai sociologi le implicazioni sulla vita quotidiana.

E ai giornalisti, il compito di filtrare, sintetizzare e divulgare.

Perché per la maggior parte delle persone viventi in Italia questa è una prima volta, e come sempre dalle prime volte si possono imparare un sacco di cose. E anche perché, a sentire qualcuno, potrebbe non essere l’ultima. Dei 7 tipi di coronavirus conosciuti, con quattro conviviamo già regolarmente: uno di questi è quello che ci porta ogni anno a riprendere il raffreddore, dato che il nostro corpo si dimentica di averlo già preso l’anno prima. E non è del tutto escluso che il Covid-19 non diventi il quinto.

Ecco allora alcune lezioni da imparare da questa prima settimana di lockdown, almeno parziale, e che, almeno parzialmente, potrebbero essere occasioni di farci diventare persone migliori. O almeno più riflessive.

1. Gli altri siamo noi: ora che, volenti e nolenti, abbiamo il triste primato del mondo occidentale in quanto a casi conclamati, gli appestati siamo noi. Chi si divertiva a girare video insultando i turisti asiatici che incontrava, o chi allo stadio esponeva certi striscioni esilaranti e molto originali, si divertirà un po’ meno ora quando agli stereotipi dell’italiano pasta-pizza-mafia-mandolino si aggiungerà anche l’identificazione – speriamo solo temporanea, nell’immaginario collettivo – italiano = coronavirus. Umberto Tozzi aveva capito tutto con ampio anticipo.

2. Il valore residuo di un passaporto: da italiani, il nostro passaporto risulta tra i più “potenti” al mondo. In altre parole, possiamo girare per la stragrande maggioranza dei Paesi venendo accolti senza nemmeno la necessità di richiedere un visto. In queste settimane, si stanno invece moltiplicando le restrizioni all’ingresso nei confronti dei nostri connazionali. Vi sembra ingiusto? Bene, pensate a che trattamento avreste voluto sottoporre i migranti “che non hanno niente da cui scappare”. Ci sono 300 casi su 60 milioni di abitanti, di una malattia che uccide con tassi piuttosto bassi, e la volete chiamare epidemia? Ma su, dai, da cosa scappate a Codogno!

3. L’unica cartina è quella fisica, non quella politica: i confini nazionali non si vedono dallo spazio, e nemmeno dalla prospettiva di micron dei virus. In effetti, per un cittadino francese di Nizza, il caso di coronavirus di Alassio è più “pericoloso” di uno di un suo connazionale di Parigi. Nel mondo dell’iper-globalizzazione non c’è qualcosa che si possa considerare davvero solo a livello regionale. Siamo tutti connessi, e non c’è niente che non vada trattato davvero come un fattore esterno. Il vettore-untore non è più solo il cinese, ma il manager, il tifoso di rientro da una trasferta di Champions. “Niente di umano mi è estraneo”, scrivevano.

4. Il numero di cose per cui siamo disposti a scendere a compromessi col nostro stile di vita è limitato: In questi giorni abbiamo ridotto il superfluo. Abbiamo rinunciato ad andare in palestra, al cinema, in discoteca, a fare un viaggio. Abbiamo sopportato i ritardi di Trenitalia e tante altre scomodità che ci danno fastidio. Ci sentiamo un po’ nello stesso mood di una città il giorno dopo essere stata colpita da un atto di terrorismo, con in più l’aggravante che qui la colpa non è (anche se per qualcuno forse sì) di altri esseri umani. Ma saremmo altrettanto disposti a rinunciare a piccoli pezzi del nostro stile di vita per risolvere altre grandi minacce del nostro tempo? Saremmo disposti a farlo per salvare il clima, o per fare più figli, o per lavorare un po’ più a lungo? Il virus ci spinge alle barricate perchè è cattivo, è altro, si insinua tra di noi come un estraneo. Ma se il problema siamo noi?

5. Un po’ ci piace. Non tutti noi sono disposti ad ammetterlo, ma c’è una certa parte di noi che risponde a sollecitazioni ipocondriache, forse scaturite dalle programmazioni di Netflix sui futuri tutti ineluttabilmente distopici. Insomma, questa morbosità nell’aggiornare il numero dei contagi e delle morti, il fatto di poter consultare le statistiche in un’app, risponde al nostro bisogno di novità. Un po’ come quando guardiamo i risultati delle partite, o consultiamo gli indici di Borsa. C’è una parte di noi, e non so dire se sia la peggiore, che si crogiola in tutto questo, e dobbiamo imparare ad accettarla.

6. Il nemico ci federa. Ok, abbiamo visto tutte le immagini dei supermercati svuotati, e quello non è certo segnale di altruismo: io mi porto a casa tutto quello che posso, e gli altri amen. Ma avere un nemico, come sanno bene gli spin doctor politici, aiuta a coalizzarci, a federarci. Gli appelli all’unità nazionale si moltiplicano, si collabora strettamente tra Comuni e Regioni di segno politico diverso. Ricordiamocene anche quando sarà estate, e magari saremo di nuovo in campagna elettorale.

7. I Black Swan esistono. Ci stiamo educando alla statistica, il che non è affatto un male, dato che è una delle scienze che più governa il nostro mondo. E, se fare previsioni fa parte del nostro DNA di Homo Sapiens da quando siamo diventati uomini agricoli, stiamo iniziando a capire che c’è un tot di cose che sfuggono al controllo nostro, e anche di McKinsey e PriceWaterhouseCooper. Si chiamano “Black Swan”, i cigni neri di cui ci parlava Nassim Taleb ancor prima di Aronofsky, e sono singoli eventi improbabili che rischiano di far saltare anche la più solida e ragionevole proiezione a medio-lungo termine. Il Covid-19, ad esempio, rischia di farci entrare in recessione (non che le nostre, di previsioni, fossero tanto più rosee).

8. La mascherina, non solo per Carnevale. Le mascherine che vi state affrettando a comprare, oltre ad essere, per il 70% circa, “made-in-Wuhan”, sono utili molto più per chi è malato, che per chi vuole evitare di diventarlo. In Asia, essenzialmente, sono nate come “gesto altruistico”: ho il raffreddore –> mi metto la mascherina per risparmiarmi di attaccarlo ad altri. Ora che abbiamo scoperto che non è così orribile indossarle, possiamo per favore importare questa buona pratica e farla radicare nella nostra cultura, anche quando abbiamo solo una banale tossetta di stagione?

9. Dobbiamo davvero spostarci così tanto, per fatturare? Certo, il contatto personale, l’esperienza insieme, quel tocco di umanità. Ma alla fine, è davvero necessario per tutti andare in ufficio a lavorare? Si sta così male a fare smart working da casa? Pensate di essere meno produttivi sostituendo una trasferta con una webcall? Siamo nel 2020, utilizziamo il pretesto dell’ansia da virus come sveglia. E lasciamo gli spostamenti a quella sottilissima fetta di lavoratori che non ne può proprio prescindere. Metrò-boulot-dodo è un paradigma del XX secolo che potremmo anche scrollarci di dosso.

10. Dobbiamo davvero spostarci così tanto, per vivere? (lieve allargamento del concetto precedente) Anche qui: ben vengano l’allegria, lo stare insieme, il senso di comunità. Ma insomma, istituire qualche settimana all’anno dove sia legittimo sentirsi asociali, passare del tempo in famiglia con i nostri cari, a leggere e ad approfondire qualche concetto, dobbiamo farlo solo se fuori c’è lo scenario di The Walking Dead ad attenderci? Ovvio, il nostro PIL, e l’economia in generale, si basa sui consumi, e se foste contenti dove siete, immettereste un sacco di denaro in meno nel sistema. Ma forse, riconsiderando i parametri di riferimento, un po’ di diminuzione dei consumi edonistici superflui, e una certa riscoperta della dimensione domestica del focolare, potrebbe non essere così negativa.

Se viviamo davvero in tempi così interessanti, perché non considerare di assistervi ogni tanto dal divano di casa nostra?

Filippo Lubrano con Leonardo Stiz

www.filippolubrano.it