‘WHATEVER is fitted in any sort to excite the ideas of pain and danger, that is to say, whatever is in any sort terrible, or is conversant about terrible objects, or operates in a manner analogous to terror, is a source of the sublime; that is, it is productive of the strongest emotion which the mind is capable of feeling. I say the strongest emotion, because I am satisfied the ideas of pain are much more powerful than those which enter on the part of pleasure.’
Edmund Burke – On the sublime and beautiful
Le tisane sul bancone del bar nelle partenze del City Airport di Londra hanno colori sgargianti. Sono di vari tipi e promettono miracoli: Detox, Wellbeing, Loss Weight. Sono allineate come sentinelle del nostro benessere, ma sono scatole che sembrano non siano mai state aperte ed hanno sopra una patina leggera di polvere elettrostatica e, probabilmente, virus morti per esposizione all’aria piu’ che ai nomi roboanti e omeopatici delle etichette. Accanto, la macchina del caffe’ed un bancone ricolmo di ogni tipo di pasta, con crema, cioccolata, e paste vegane, senza glutine, con semi vari. L’offerta di un mondo buono e bello per tutti, per chi non vive senza la brioche al mattino, per chi non mangia carne, per i celiaci, per i golosi. In questo enclave dal reddito medio piu’ alto del pianeta che e’ il City Airport, probabilmente, qualcosa per tutti non e’ qualcosa che tutti si possono permettere regolarmente.
Un mondo dove tutti hanno qualcosa a cui aspirare, salute, denaro, amore, detox e, da qualche parte, rimedi per ogni cosa, per ogni pena del cuore, mi dicono le decine di pubblicita’ di assicurazioni e fondi pensione. Un futuro di case in riva a qualche mare, con facce distese e abiti cangianti, e sorrisi bianchi, bianchissimi.
Perche’ tutto e’ rimediabile ed assicurabile, dal buco dell’ozono all’effetto devastante di cinque anni e forse altri cinque di incandescenza Trumpiana. Mentre da qualche parte il meccanismo celeste della distribuzione di speranza si e’ rotto, per effetto di divisioni e di odii che nascono proprio nel momento nel quale non tutto sembra possibile come prima. Quel prima delle utopie, le tante utopie che sono passate in rassegna nel secolo scorso, il secolo lungo. Le utopie dei falansteri, delle comuni, dei giovani delle varie ondate di consapevolezza. Dal ’68 al 2018. Marianne francesi e Grete svedesi. Le utopie delle comuni in Oregon di Osho, del buddismo europeo, le utopie di tutte le rivoluzioni soft o hard che hanno provato a cambiare il modo di pensare e di vivere, riuscendoci solo in parte, facendo rovinare ogni tentativo seppur nobile in spirali di paranoia e violenza.
Le generazioni come la mia, quelle di attraversamento del millennio, hanno visto il mondo prima e dopo la fine della fiducia in un domani migliore e sono arrivate scornate e deluse in un’era dove tutto sarebbe possibile, veloce ed efficiente, ma dove tornano paure antiche, quella del diverso, della malattia alienante della mente, le paure della carestia e della pandemia. L’epidemia che prima avvelena il cuore, dove tutti si chiedono ‘e se toccasse a me, a chi dovrei dare la colpa’, piuttosto che ‘ se toccasse a me, come dovrei fare per evitare di contagiare altri?’.
Ed in questo mondo di attraversamento, fra antropocene e tecnocene, proprio un contagio globale e’ un suggello surreale e inatteso di questi dieci anni e passa di sublime distopico, definibile come un senso di vertigine e di fascinazione per scenari ed eventi estremi, crisi finanziarie, dissesti idrogeologici, rivoluzioni politiche di direzione estrema e tante altre manifestazioni di una asintotizzazione del reale. Come se fosse tutto all in or out. Tutto possibile, ergo estremo, non pensabile con la logica di chi nato anche solo venti anni fa.
Un sublime distopico dove tutto, per i canoni di giustizia e di democrazia cui siamo abituati, se non i canoni di umanita’ e di rispetto reciproco, puo’ accadere e diventare spettacolo, intrattenimento, distrazione dalle beghe quotidiane e dalla riduzione dei salari medi. Un mondo all’incontrario, come un Carnevale dove il folle e’ re ogni giorno ed il saggio e’ re una volta all’anno. Forse.
Un mondo dove ci si chiede se le dittature ci proteggano meglio dai virus che le democrazie. Un baco nel sistema di pensiero che mangia i tarli anche delle menti che dovrebbero essere piu’ abituate a pensare. E propriok pensando uno si rende conto che l’infrastruttura virtuale mondiale e’ pronta per tyutto questo, e’ pronta per oligarchie delle informazioni e per censure e per deliberate diffusioni di male o false notizie. Gli anni dell’attraversamento sono stati un esperimento in distopie squisite. I meme e i tweet, le mezze bugie e le teorie conspirazioniste.
Ed ora continuano le crisi amplificate di fiducia nel futuro, amplificate e rese ordinarie, giornaliere. Come se fosse esaurita la spinta delle aspettative razionali. Ci sforziamo ad osservare gli eventi, come se ci fosse ancora una forma di guida, di razionalita’. Proviamo a mettere in linea dati ed informazioni, ma i conti tornano sempre meno. Perche’ sono cambiate le fondamentali funzioni del pensiero. O, forse, negli anni di attraversamento, siamo arrivati non solo in un altro decennio, in un altro periodo dello sviluppo o retrofit del pianeta, ma in una dimensione nuova, surreale, dove virtuale e reale ormai sono completamente mescolati. E dove le foto che facciamo non vivono senza filtri, quella realta’ dei colori alterati ci sembra migliore di quella dei cieli grigi e dei pomodori rossi si, ma non come con un filtro dell’iPhone.
Alla fine, gli economisti sono gli ultimi teologi, di una religione umana, basata sull’idea che le menti, costruite per millenni, abbiano e seguano sempre una loro razionalita’ implicita, la massimizzazione di una funzione di utilita’ come dogma.
Invece, in questi tempi preapocalittici, da disegno del sublime terrorizzante dei pittori naturisti inglesi del XVIII secolo, nulla sembra seguire quella logica. Decisioni importanti di politica monetaria, risoluzioni di crisi devastanti, prese come altre occasioni per offrire uno spettacolo di stupore e di decisionismo, piuttosto che ritrovare una direzione logica, di ‘policy’ globale.
Dopo aver scoperto che siamo tutti connessi, che la tecnologia ci permette livelli di liberta’ mai raggiunti, perlomeno la liberta’ di eseguire, di fare cose, a velocita’ od intensita’ mai sperimentate, ne abbiamo avuto paura. Ed abbiamo creato nuovi muri o restaurato quelli vecchi. Paure arcane o nuove, moderne. Ed i nostri occhi che sono sgranati sull’abisso. Presentato come uno spettacolo di colori sgargianti e di led luminosi. Ben sapendo che dietro non c’e’ niente. Non c’e’ l’impressione di una governance mondiale, nel caos di questi giorni di pandemia. Ma ci siamo abituati al fatto che domani accadra’, in qualche maniera, anche approssimativa. Domani accadra’, mica siamo gli abitanti del primo pianeta abitabile accanto a Betelgeuse.
E, in questo senso di tempi che cambiano e tempo che riparte e deve ripartire, lo spettacolo distopico rende meglio, fa sentire, forse, meno soli. Nelle idiosincrasie e nelle idiozie delle decisioni sbagliate, nelle cose fatte maturare troppo o cesoiate troppo presto. Se il re e’ il folle, allora, va tutto bene. Se il re sbaglia, tanto meglio.
L’importante e’ che ci sia un re, a cui tirare pomodori o lanciare fiori, un re che decida e che faccia errori madornali, meme-abili. Un re che ci mostri una realta’ fatta di schermi dietro ai quali non ci sono altro che rovine o case comuni da ricostruire. L’importante e’ che lo spettacolo vada avanti.
Mentre la pandemia di questi giorni, le strade ed i luoghi di incontro vuoti, le mille precauzioni con cui stiamo a distanza delle persone ci stanno, forse, facendo riconsiderare se questa distopia dinamica e hyperveloce sia qualcosa con cui vogliamo affrontare i prossimi decenni, o se le generazioni che nasceranno dopo questo attraversamento di ere vorranno un mondo fatto ad immagine e somiglianza di tisane o pubblicita’ delle assicurazioni negli aeroporti od un mondo dove distante, spazi, silenzi e desideri tornino ad essere condivisi, umani ed essenziali. E non piu’ binari. Un mondo meno manicheo, dove tutto ritorni nell’alveo del tempo. Con curcuma e ginger.
Soundtrack
Fischerspooner – We Are Electric
Maximo Park – Risk to exist