Strani giorniLeopardi gay, tra giustizia biografica e rimozione accademica

La letteratura è specchio della società in cui essa viene prodotta e fruita. È questo uno degli insegnamenti che diamo ai nostri studenti e alle nostre studentesse quando diamo loro in mano le opere che hanno caratterizzato la storia della nostra civiltà letteraria. L’opera come specchio del mondo, l’autore come suo testimone. Ma c’è di più: c’è un altro punto di vista da tenere bene in considerazione nel rapporto tra autore, opera e fruizione: la reazione del pubblico. In quella reazione – sia che essa ne decreti il successo, sia che ne esprima il rigetto – possiamo trovare un indice di come la società si relaziona non solo al “testo”, ma soprattutto al suo contenuto. Ed è quello che è successo all’ultimo libro di Franco Buffoni, Silvia è un anagramma (Marcos y Marcos, 2020).

Il libro di Buffoni è un’ampia narrazione di cosa significasse essere omosessuali nell’Italia pre- e post-unitaria. Un arco temporale, quello ricoperto dall’autore e poeta, che parte proprio dalla vita di Giacomo Leopardi e arriva fino al secondo dopoguerra, sfiorando il nostro contemporaneo con delle finestre su Pasolini, Mieli e altri autori e autrici più recenti. Analizzando le biografie di tre poeti rappresentativi della nostra civiltà letteraria contemporanea – Leopardi, Pascoli e Montale – ravvisa tutta una serie di indizi che dimostrerebbero l’omosessualità (vissuta, sublimata o rigettata a seconda dei casi) dei tre grandi autori. Non solo: Buffoni allarga la sua analisi a molte altre figure della nostra storia più recente. Dal risorgimento alla prima repubblica, Buffoni ci racconta dei sentimenti di Mazzini per Mameli – sì, l’autore dell’inno nazionale, con buona pace di Giorgia Meloni – delle segrete stanze vaticane e di ciò che accadeva nelle redazioni di importanti quotidiani nazionali.

Nessun outing postumo, il suo. Solo una descrizione di una società antecedente alla liberazione determinata dai moti di Stonewall, nel 1969 – e di cui si è celebrato il cinquantenario proprio lo scorso anno a New York – con il solo scopo di fornire una ricostruzione di fatti storici e culturali. Opera di restituzione e “giustizia biografica”, Silvia è un anagramma, che vuole essere specchio di quella fetta della nostra società in quel lasso temporale. E Buffoni diviene, di conseguenza, testimone a distanza di quel periodo. Forte anche di una pluridecennale esperienza conquistata sul campo dell’insegnamento universitario. Eppure, come sempre accade, il suo libro ha sortito delle reazioni. Sarà interessante indagarle, proprio per capire qualcosa di più della società di oggi.

Tali reazioni, soprattutto nel mondo accademico, sono quelle di una vera e propria opposizione dall’ipotesi – che forse è più di un’illazione  – dell’omosessualità di Giacomo Leopardi. Per esigenza di brevità, sintetizzo: Leopardi non era gay, non ci sono le prove. E anche lo fosse stato, ciò non toglie valore alla sua opera. Rifiuto e distanza, insomma. Buffoni definisce, questo atteggiamento, come grigio “neutro accademico eterosessuale”. In un contesto in cui circola, con malcelato compiacimento, l’aneddoto per cui D’Annunzio si tolse due costole per praticarsi sesso orale da solo, diventa irrilevante – non perché lo sia davvero, ma perché deve esserlo – che il più grande poeta della nostra contemporaneità amasse Antonio Ranieri.

Eppure, sarebbe bastato leggere il libro di Buffoni per comprendere che non c’era alcun tentativo da parte sua di sminuire il portato poetico del “Contino”. Questa necessità di prendere le distanze da un’omosessualità che “comunque non inficia l’opera”, è tutta nella mente di chi vede in orientamenti sessuali “non conformi” qualcosa di sminuente. E fa male constatare che quel “neutro accademico eterosessuale”, largamente presente nelle nostre università, altro non sia che una voce tra le tante che l’omofobia ha trovato per innestarsi in un discorso più alto. Non si tratta, insomma, della solita barzelletta sul frocio che non sa come comportarsi dal salumiere di fronte al salamino ben esposto in vetrina – questo, se vogliamo, è tipico del linguaggio sovranista ampiamente rappresentato sui social – ma di un imbarazzo del mondo della cultura che preferisce non dire. Passare oltre. All’insulto del volgo, l’invisibilità dell’élite. Cambiando l’ordine dei fattori, il risultato non cambia.

Un altro caso, sempre dal mondo della cultura, è rappresentato dalla recensione affidata da Alias – rivista progressista – a Roberto Barzanti, raffinato intellettuale di sinistra, nonché europarlamentare e già sindaco di Siena. Lettura, la sua, che sembra non tener conto dell’esistenza dei gender studies nel panorama culturale contemporaneo degli ultimi trent’anni. Perché Barzanti sembra voler attribuire a Buffoni volontà e sentimenti che, ad un’attenta lettura del suo volumetto, di fatto non troviamo. Ovvero, quello di fare dell’omosessualità di Leopardi un’identità rigida e monocorde (così si esprime il critico) attraverso la quale riconsiderare (obbligatoriamente?) l’opera del recanatese.

Peccato, però, che tale “presunzione di rigidità” non venga messa in campo quando si parla dell’eterosessualità data per scontata di molti altri autori e delle poche autrici presenti nelle nostre letterature. Invertendo i termini della questione, quasi obbligando ad una rigida omosessualità un poeta (anzi, il Poeta), Barzanti accusa Buffoni di fare ciò che da sempre la critica letteraria ha imposto: la pervicace voglia di attribuire ai nostri autori identità fisse e impossibili da mettere in discussione. A ben vedere, è quello che succede – mutatis mutandis – nei palazzi del potere istituzionali quando i più accaniti detrattori dei diritti civili accusano i movimenti di liberazione di voler cancellare le differenze, quando invece è vero il contrario: il dibattito recente sulla legge Zan ha fornito diversi esempi in merito.

Non voglio ovviamente affermare che la recensione su Alias voglia farsi portatrice di un qualsivoglia pensiero discriminatorio. Non conosco Barzanti e do per scontata la sua buona fede. Temo tuttavia che il critico non conosca bene i termini della questione: ovvero, di una lettura sotto la lente degli studi di genere dell’opera letteraria. Anche quella di Leopardi. E cioè: non si vuole ribaltare il valore poetico o il significato della sua opera. Ma se è vero che l’autore è testimone di un’epoca e la sua opera ne è specchio, non solo il detto ma soprattutto il non detto diventa un tassello fondamentale per una corretta interpretazione. A tutto tondo. Del messaggio e del contesto.

Chi si oppone a questa lettura, fingendo che “il problema” non esista – e, di fatto, riducendo il fenomeno a problema – non fa altro che posizionare l’identità sessuale (di genere e di orientamento) nel novero delle cose di cui è meglio non parlare perché sgradite e sgradevoli. E gli studi di genere denunciano proprio quest’abuso. Sarebbe bene aver presente questo punto di vista quando si recensiscono opere che provano a denunciare il significato politico di un rimosso che, se portato alla luce, diviene reazione. E in quella reazione, come si diceva in apertura, c’è molto della società che lo produce. E anche questo è un fatto politico, oltre che culturale. Buffoni ha tolto il velo dell’ipocrisia. Sotto quel velo, chi si vede scoperto, ha cominciato a far molto rumore. Io rifletterei, in primis, su questo.

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