Questa è la storia di un viaggio; la puoi leggere su questo blog a puntate oppure, se preferisci, la puoi leggere per intero qui.
Ofelia a Marrakech – seconda puntata (continua da qui)
Finisco di rileggere, poi chiudo il diario e torno a letto, troppo affaticata per scrivere qualcosa. Guardando l’uomo che mi dorme accanto, l’uomo che mi ha appena sgridata di nuovo, capisco – finalmente – di dover smettere di aspettare il vento.
Così la mattina ignoro il dolore ed esco, per non vedere Sami al mio risveglio. Sami, mio marito, che forse ha un’altra donna. Chissà se anche la sua borsa è rossa. Chissà come è lui con lei. Premuroso e gentile come sa essere quando vuole? Forse dovrei chiederglielo, buttare fuori tutto, ma non ho voglia. Non voglio discussioni. Voglio solo andarmene.
Mentre cammino verso la Sorbona, passo davanti al Panthéon e leggo la scritta ad alta voce.
Aux grands hommes, la patrie reconnaisante.
Grandi uomini.
Quando un uomo si può definire grande? O meglio, quale uomo?
Di certo non mio marito, che è alto più di due metri, ma dentro è piccolo piccolo. Mi sono sempre rifiutata di ammetterlo, ma è arrivata l’ora di cedere all’evidenza: ho sposato un pezzo di merda.
Arrivo alla Sorbona stanca morta. Aver deciso di camminare per liberare la mente, nonostante le fitte, non è stata una grande idea.
«Ma cosa ci fai qua? Sembri uscita da un frullatore!» esclama Maude quando mi vede. È una collega, ma è anche la mia migliore amica. «Ti avevo detto che avrei tenuto io il tuo seminario. Tu devi pensare solo a riposare».
«E infatti lo terrai tu. Anzi, grazie ancora per questo. Ma al pronto soccorso mi hanno detto che non ho niente di grave, perciò mi sembrava inutile rimanere a letto a crogiolarmi nel dolore. Ho male ovunque, ma è sopportabile. Più che altro non sono riuscita a dormire. Senti, ti devo parlare. Ti va se saltiamo il buffet della conferenza e pranziamo al parco?»
All’una ci incamminiamo verso il Lussemburgo, compriamo un panino e una fetta di torta in una panetteria e ci accomodiamo su due delle tante sedie che circondano le aiuole.
«Allora?» mi chiede Maude, dopo aver addentato la sua baguette.
«Allora mi ha detto di smettere di frignare perché lui voleva dormire» rispondo. Poi, vedendo la sua faccia perplessa, aggiungo: «Stanotte. Quando ho svegliato Sami per avere un po’ di conforto perché stavo davvero male, lui mi ha detto di smettere di frignare. Di non rompere. Non è la prima volta che fa così, che mi tratta male». Adesso che ho iniziato, le parole che non ho mai avuto il coraggio di pronunciare escono senza sforzo. «Una volta mi ha lasciato per terra».
«Come ti ha lasciato per terra?»
«Era appena tornato a casa, saranno state le due di notte, ed era in bagno. Io sono entrata per bere e mi è venuto un capogiro. Mi sono seduta sul bordo della vasca, ma ho perso l’equilibrio e sono caduta per terra. E lì son rimasta, mentre lui finiva di lavarsi i denti, sciacquava lo spazzolino, lo rimetteva nel bicchiere e si asciugava la bocca. Con calma. Poi è venuto a tirarmi su, certo, ma non si è precipitato, capisci? È rimasto lì a finire le sue cose. Come se non gli interessasse che sua moglie fosse lunga distesa per terra. Come se fosse una cosa normale».
«Non stai scherzando, vero?»
«Sai cosa mi ha detto dopo, quando glielo ho fatto notare? Che aveva visto che mettevo le mani davanti e aveva pensato che non mi fossi fatta niente».
«Non so cosa dire, Charlotte. Davvero. Io…»
«Non è finita qui».
«Cosa?» Maude è sempre più perplessa.
«Ti ricordi quella volta che ci siamo intossicate al ristorante? Lui era fuori quando sono tornata a casa e ho cominciato a vomitare, così l’ho chiamato. Quando finalmente mi ha risposto, mi ha assicurato che sarebbe tornato, ma è arrivato dopo due ore. Io ero a letto, sveglia, al buio, e ho sentito i rumori. È andato in cucina e ha bevuto un’aranciata. Ho sentito che apriva la lattina. Solo dopo è venuto in camera. Gli ho chiesto perché non fosse venuto subito e sai cosa mi ha detto? Ti ho chiamata appena sono entrato dalla porta, ma tu non hai risposto e ho pensato che dormissi. Ti rendi conto? Io non l’ho sentito, altrimenti avrei detto qualcosa. Potevo essere morta, per quel che ne sapeva, ma per prima cosa lui si è bevuto un’aranciata. Sapeva che stavo male, Maude. E tanto. L’avevo chiamato praticamente disperata».
«Perché non mi hai mai raccontato queste cose?»
Resto in silenzio. Perché non ho mai raccontato a nessuno queste cose? Maude è come una sorella, eppure di questo lato di Sami non le ho mai parlato. E non l’ho mai fatto nemmeno con la mia vera sorella, Isabelle.
«Non lo so. Vergogna, paura, io non lo so…»
«Ma vergogna di cosa? Non sei tu a doverti vergognare!» Maude si accorge che sta urlando e abbassa la voce. «Scusami, è che sono davvero arrabbiata. Ma che razza di uomo hai sposato?»
«È da tempo che me lo chiedo e finalmente stamattina mi sono data una risposta. Ho ammesso ad alta voce quello che stavo negando da troppo tempo. Ho sposato un pezzo di merda, Maude. Uno squilibrato. Non so come ho fatto a farmi ingannare. Mi attaccavo ai momenti belli, a quando era dolce e tenero. Forse ammettere che non gli importava niente di me mi faceva troppo male, non lo so. Forse non volevo vedere il fallimento del mio matrimonio. Sono i matrimoni degli altri che falliscono. A un certo punto ho creduto persino di essere io a pretendere troppe attenzioni. Mi dicevo che in fondo la passione si affievolisce con il tempo, che ci si allontana, che ognuno è fatto a modo suo. Tutte le cretinate che ci si racconta per non cedere all’evidenza, insomma. Ma poi ha cominciato a essere cattivo, a trattarmi male. L’episodio di stanotte mi ha aperto gli occhi. Chiedevo solo calore, un abbraccio, qualche coccola. Ero spaventata, avevo male ovunque, e lui mi ha detto di non rompere perché voleva dormire. Ma io poche ore prima avevo rischiato di rompermi l’osso del collo, accidenti. Passione o non passione, se una persona per cui provi un minimo di affetto sta di merda e ti chiede aiuto, tu glielo dai. Punto. A Sami non importa nulla di me, questa è la verità. E io devo smettere di star lì a elemosinare attenzioni da qualcuno che non me le vuole più dare e che mi umilia».
«Cosa farai?»
«Me ne andrò. Credo anche che abbia un’amante, tra l’altro, ma paradossalmente questo mi sembra marginale. Stasera prendo due cose e vado in albergo. Non voglio più rimanere in quella casa. Stamattina mi sono fermata in un hotel in rue Mouffetard e ho chiesto una camera. Starò lì qualche giorno, in attesa di trovare una sistemazione».
«Vieni da me, intanto».
«Da te? Ma tu odi coabitare».
«Charlotte, sei la mia migliore amica. Non voglio che tu alla sera debba tornare in un albergo da sola. Insisto. Dai, dimmi di sì. Non è per sempre. Se presa per piccoli periodi di tempo, sono una coinquilina gradevole. E ho tanti cerotti in casa, così possiamo curare tutti questi graffi».
Maude mi sorride; sta indicando le ferite sulle mie braccia. Poi appoggia una mano sulla mia e capisco che le sue parole scherzose nascondono affetto e preoccupazione. So che l’offerta è sincera.
«Va bene, vengo da te. Grazie. Grazie davvero. Troverò il modo di sdebitarmi».
(continua)