Questa è la storia di un viaggio; la puoi leggere su questo blog a puntate oppure, se preferisci, la puoi leggere per intero qui.
Ofelia a Marrakech – settima puntata (continua da qui)
Parigi, lunedì 16 luglio 2018
Arriviamo alla Gare de Lyon verso le due del pomeriggio. Mentre siamo in coda per un taxi, respiro l’aria a pieni polmoni. Sa di traffico, di caldo, della fresca vittoria della Francia ai mondiali, del profumo esotico della signora davanti a noi, e resto in silenzio, perché il profumo – non so bene per quale scherzo della memoria – mi fa venire in mente Sami e all’improvviso la mia vita con lui è dappertutto intorno a me. Stringo la cinghia della sacca da viaggio e tento di scacciare le immagini, ma nel momento in cui lo faccio capisco che non devo. Devo guardarle in faccia, quelle immagini, devo affrontarle per poterle superare, così mi astraggo dal corpo e mi rivedo in rue Crémieux, in un giorno di pioggia, mentre chiedo a Sami di farmi una foto in mezzo a quelle case colorate che mi piacciono tanto. Gli passo il telefono, mi metto in posa, riprendo il telefono per guardare la foto e faccio una battuta sul fatto che la posizione e le ombre mi fanno sembrare incinta.
«No, sei solo flaccida» mi risponde lui, senza ridere.
Quel flaccida gronda cattiveria gratuita e desiderio di ferire, e io rimango muta, come ho imparato a fare.
Che stolta, sono stata.
«Tutto bene?» mi chiede Gaetano, spezzando il filo dei miei ricordi.
«Adesso sì» rispondo. «Adesso sì».
Quando saliamo in taxi, sento per la prima volta l’indirizzo dell’albergo. Ho voluto rimanere all’oscuro fino all’ultimo, per lasciare la mente libera. Mi stupisco quando Gaetano dice rue Blanche e lui se ne accorge.
«No, non ti porterò al Moulin Rouge» mi sorride. «E nemmeno sul trenino di Montmartre, anche se fare un po’ i turisti non ci farebbe male. Gregory sta in zona da un amico e mi è comodo così».
«In realtà sono contenta, perché mi ricorda i miei inizi. I primi mesi a Parigi li ho passati in un appartamento in place de Clichy. Era un casino unico, ma è così che ho imparato a conoscere e amare la città».
«Tua madre di dove è? Mi rendo conto di non avertelo mai chiesto».
«Dell’’Île d’Oléron, sulla costa atlantica. Mio nonno era un ostricoltore e adesso è tutto in mano a mio zio Quentin e a mio cugino Didier. Per anni ho passato le estati lì, e ancora adesso ci torno spesso. Mia madre si è occupata dell’attività con loro finché non ha conosciuto un certo veterinario in vacanza e l’ha seguito in Italia, dove ha smesso con le ostriche ed è diventata quello per cui aveva studiato in realtà, un’arredatrice d’interni».
Continuiamo a chiacchierare mentre il taxi avanza lento nel traffico. Ho fatto bene a lasciare Parigi, almeno per qualche tempo. Sono convinta che, se fossi rimasta, avrei cominciato a odiarla, e sarebbe stato un peccato.
In hotel ci danno due camere sullo stesso piano, ma non adiacenti. Me ne rallegro, perché ho sempre detestato le pareti sottili e l’intimità forzata con gli altri ospiti; preferisco che i miei vicini di stanza siano degli sconosciuti, che possono litigare o fare l’amore senza che poi io debba fingere di non aver sentito.
La camera è all’ultimo piano e ha due finestre da cui si vedono i tetti. È spaziosa e kitsch, ma tutto quel rosso e quel viola, entrambi tenui e non sfacciati, non mi dispiacciono. Sistemo i pochi vestiti che ho portato, faccio una doccia e mi preparo per seguire Gaetano Ferri – l’artista, non il gallerista con cui sono abituata a lavorare – da Gregory Schmidt, il suo fidato assistente. Sono curiosa e a dire la verità anche emozionata di poter partecipare ai preparativi di una mostra così importante. Mi sento carica. Mi sento viva. Ofelia a Marrakech oggi si prenderà un giorno di riposo.
Arriviamo a sera sfiniti. Gregory è una macchina da guerra e per fortuna mi ha preso in simpatia, perché non vorrei mai averlo contro. Sembra una pasta d’uomo – e certamente lo è –, ma è inflessibile. Mi piace il rapporto che ha con il suo capo, che poi è anche il mio: franco ma sempre rispettoso. Gaetano ha chiesto il mio parere su un paio di cose e mi ha fatto piacere vedere che entrambi lo ascoltavano con interesse e senza pregiudizi.
Siamo nell’appartamento di un amico di Gregory, in Rue d’Orchampt, vicino alla casa di Dalida; non so che mestiere faccia questo amico, ma deve essere ben pagato, oppure deve essere ricco di famiglia, perché l’appartamento è stupendo. Ampio, luminoso, su due piani, arredato con gusto, con pochi oggetti in giro ma non freddo. Mi piace e mi incuriosisce, ma del proprietario nemmeno l’ombra. Per cena Gregory ci propone un ristorante berbero che conosco anche io e la tajine di agnello e prugne, che mangio con soddisfazione, mi ricorda ancora una volta quanto io ami questa città, i suoi odori, i suoi sapori, i suoi colori.
Quando un uomo sui quarantacinque ci raggiunge e si siede con noi, capisco perché ci abbiano dato un tavolo grande anche se siamo solo in tre e a Parigi lo spazio è denaro: è l’amico di Gregory ed è anche il proprietario, David Yacine. Gregory mi spiega che si conoscono da tantissimo tempo, dall’università che hanno frequentato entrambi a Londra.
«Quando ci siamo incontrati, David era il classico studente borghese, ricco di famiglia e ben vestito. Io ero cresciuto a Berlino, vivevo alla giornata, avevo provato ogni droga possibile ed ero deciso a diventare uno scienziato di successo».
«Uno scienziato?» chiedo stupita.
«Sì» mi risponde direttamente David, «siamo laureati entrambi in chimica, anche se poi abbiamo preso strade diverse».
Parliamo un po’ in inglese e un po’ in francese, perché Gregory parla un italiano fluente ma David no. Mi piace questo melting pot: io sono mezza francese e mezza italiana, Gregory ha padre tedesco e madre inglese, vive a Milano come Gaetano, ma come lui è sempre in giro per il mondo, David è cresciuto a Londra da genitori di origine algerina e da anni vive a Parigi.
«La mia famiglia è sempre stata nella ristorazione» continua David, «ma da giovane sentivo che non era la mia strada e ho così ho cominciato a lavorare in una casa farmaceutica. È stato solo quando mio padre è stato costretto a rallentare per riprendersi da una malattia che l’ha quasi portato alla morte e io ho dato una mano a mia madre nella gestione dei ristoranti, che ho scoperto che in realtà quel lavoro mi appassionava e alla fine sono tornato in qualche modo all’ovile. All’inizio sono rimasto a Londra e poi mi sono spostato qui a Parigi».
«E tu, invece?» chiedo a Gregory.
«Io invece ho capito subito dopo la laurea che la scienza non faceva per me e siccome ero, e sono tutt’ora, parecchio bravo con il bricolage, ho continuato a fare quello che facevo durante gli studi per arrotondare: mettere in piedi scenografie per alcuni teatri minori. Fortuna ha voluto che a una delle rappresentazioni fosse presente Gaetano e che si interessasse a un albero che avevo costruito».
«Ero lì per compiacere un’amante con velleità da attrice» mi spiega Gaetano, «ma lo spettacolo era una vera tortura. L’unica cosa degna di nota era il magnifico albero sul palco e dopo averlo fissato per tutte le due ore e mezza di quell’interminabile pièce, ho chiesto informazioni a riguardo. Il giorno dopo ho chiamato Gregory, gli ho detto che cercavo un assistente ed è stata una delle cose migliori che io abbia mai fatto».
Guardo Gregory; si vede che è contento, fiero della stima che Gaetano ha di lui, ma capisco che di carattere è uno che si imbarazza ancora per queste cose e infatti tenta subito di sdrammatizzare.
«All’inizio ero davvero un incompetente e non so come tu abbia fatto a non cacciarmi a calci in culo, Gaetano. Non distinguevo un Monet da un Picasso».
«Ma hai studiato, ti sei applicato» risponde Gaetano. «E hai imparato».
«Già, ho trovato nell’arte gli stimoli e la passione che non avevo trovato nella chimica. È così facile sbagliare a diciotto anni».
È vero. Io al liceo ero convintissima di voler diventare avvocato. Volevo occuparmi di grandi tematiche sociali, di diritti dell’uomo; volevo salvare il mondo, insomma. Poi, nell’estate dopo la maturità, mentre giravo per l’Europa con le mie amiche, ho avuto una folgorazione davanti alle opere di Munch a Oslo. All’improvviso, senza nessuna avvisaglia e senza nessun motivo apparente, ho saputo che era quella la cosa di cui mi volevo occupare.
Non mi sono mai pentita.
(continua)