Questa è la storia di un viaggio; la puoi leggere su questo blog a puntate oppure, se preferisci, la puoi leggere per intero qui.
Ofelia a Marrakech – quattordicesima puntata (continua da qui)
«Sei andata a correre stamattina?» mi dice Nick quando ci incontriamo.
Ci siamo dati appuntamento alle dieci, per fare i turisti insieme alla mattina e avere poi il pomeriggio ognuno per sé. Mi fa la bise e la cosa mi fa sorridere.
«Ormai stai diventando francese anche tu» gli dico. «No, non sono andata. Ho tenuto in serbo le forze per scalare la collina. Hai visto le temperature di oggi?»
«Infernali, direi. Anche se non so se l’inferno sia effettivamente un posto caldo. Magari è gelido. Tu che dici?»
«Dico che quello del cuore, di inferno, è gelido di sicuro. Gli altri tipi di inferno non so».
Mi esce una voce strana, quasi amara, ma Nick non sembra notarlo. Forse, però, è solo molto bravo a non mettere in imbarazzo gli altri.
«Pronto per il castello?» aggiungo con un tono più vivace.
«Prontissimo a calarmi nella parte del turista perfetto. Guarda, ho anche una macchina fotografica».
Rido, mentre usciamo dall’albergo e ci incamminiamo per un vialetto che si inerpica su per la collina. Abbiamo deciso di non fare la salita più gettonata accanto alla funicolare, ma di usare quella meno battuta a pochi metri dall’hotel. È un bene, perché quando arriviamo in cima alla collina, la quantità di turisti è tale che mi viene voglia di scappare via.
«Ma quanta gente c’è?» esclamo cercando dell’ombra.
Per fortuna non è umido, ma il sole scotta già.
«Giusto quelle due o tre persone, mi sembra. Da che parte andiamo? Bastione dei Pescatori o Galleria nazionale?»
«Bastione! Ne ho un bellissimo ricordo. Era inverno, quando ci sono venuta. Ed era davvero suggestivo».
Ci incamminiamo, ma la nostra attenzione viene presto attratta da un cartello. Labirintus, recita. Mi viene in mente qualcosa che ho letto sulla guida prima di uscire, cioè che la temperatura interna di questo labirinto sotterraneo è di circa 20 gradi, una vera manna dal cielo.
«Ci sarà un mucchio di gente che cerca refrigerio» dico a Nick mentre ci dirigiamo verso l’ingresso.
E invece no, non c’è nessuno. Scendiamo per la ripida scaletta e passiamo la mezz’ora successiva in un dedalo di gotte umide e buie, in compagnia di qualche turista curioso come noi e di qualche improbabile manichino pronto per un ballo in maschera di qualche secolo fa. Leggiamo sull’opuscolo che il conte Vlad – per gli amici Dracula – è stato imprigionato qui e scattiamo qualche foto sciocca ma doverosa. Ho sempre amato i labirinti, anche se questo non è un labirinto vero e proprio; è più un cunicolo, e l’odore mi riporta alla mente la vecchia cantina dei miei nonni paterni, dove c’erano sempre salami appesi e bottiglie di vino ammuffite.
Quando riemergiamo alla luce del sole, il caldo ci stronca ogni velleità. Visitiamo il Bastione, o meglio guardiamo il Bastione, perché l’idea di camminarci sopra stretti tra frotte di essere umani sudati non alletta nessuno dei due, e poi ci dirigiamo verso l’altra estremità della collina, dove c’è la Galleria nazionale ungherese. Sudiamo e non parliamo; probabilmente entrambi stiamo maledicendo questa passeggiata, ma entrambi siamo troppo educati e troppo poco in confidenza per dirlo.
Mi butto io.
«Senti, così non ci godiamo niente, è solo una tortura. Cosa ne dici se scendiamo, pranziamo da qualche parte e torniamo qui domattina all’alba, quando non c’è nessuno? La vista sulla città da quassù è magnifica».
«Ci sto. E sono molto felice che tu l’abbia detto. Anzi, ti confesso che sono uscito all’alba anche stamattina, ma mi sono concentrato sul Danubio. Sono contento che alzarsi a ore improponibili non dispiaccia neppure a te».
«Scherzi? A Berlino vanto una foto sotto la Porta di Brandeburgo deserta. Ripeto, deserta. Mi sono alzata alle cinque per averla».
«Ottimo, siamo d’accordo, allora. Dove andiamo a mangiare?»
Scegliamo un locale belga vicino all’hotel e, per stare leggeri con tutto quel caldo, pensiamo bene di scegliere entrambi un hamburger con tanto di cipolle, patatine fritte e birra. Prendo una stout che si chiama Hercule, da Poirot, in omaggio a tutti i romanzi di Agatha Christie che ho letto da ragazza. Mentre la sorseggio in attesa del panino e penso a tutte quelle morti violente, mi viene in mente ancora Sami. Per distrarmi, mi concentro sui plaid appoggiati allo schienale delle sedie – siamo seduti in una veranda – e mi scappa da sorridere al pensiero che ci sono trentacinque gradi, ma loro sono ugualmente lì, pronti all’uso, perché non si sa mai cosa potrebbe succedere. Un momento prima il caldo torrido, un momento dopo la glaciazione. Succede anche ai cuori. Succede anche alle emozioni.
E magari bastasse solo un plaid per stare meglio. Magari.
Passo il pomeriggio in camera, cullata dall’aria condizionata e immersa un po’ nel quaderno di viaggio e un po’ nei pensieri per la morte di Sami, che non se ne vanno e forse è giusto così. Non ho perso la sensibilità, mi dico, il cuore funziona ancora. È sempre una magia quando tocco con mano la sua capacità di ripararsi. Di rigenerarsi, anche. Il cuore si rompe, si crepa, si spezza, si sfracella, ma – a volte persino senza che ce ne rendiamo realmente conto – si ricostruisce: i cocci chiusi in una scatola si rimettono insieme di nuovo per formare il pezzo intero.
Mi sento spossata e carica allo stesso tempo, passo attraverso una serie di sensazioni che mi fanno sentire tutto e il contrario di tutto. Sami è morto. Adesso per tutti e non solo per me.
Le Roi est mort, vive le Roi!
Verso le sei decido di uscire, perché non posso passare la vacanza a vegetare in camera, anche se è piacevole stare in un limbo in cui non sono costretta a prendere decisioni, a dire o a fare cose. Un limbo necessario, a volte, a patto che non duri troppo e che non si trasformi in una prigione.
Voglio stampare alcune foto per attaccarle sul quaderno, così vado in Váci Utca, la via commerciale della città, sperando di trovare qualcosa che faccia al caso mio. Lo trovo in un vicolo laterale, in una bottega che sa di abbandono e malavita. Tutta quella zona, in realtà, mi trasmette una sensazione di abbandono e malavita, anche se mi rendo conto che è una sensazione stonata, perché la zona è molto vivace e allegra. La attribuisco alla mia idiosincrasia per tutto ciò che è troppo, e per me questa via è troppo commerciale, troppo costruita, troppo affollata. L’edificio più bello, la galleria Párisi Udvar, con le sue sculture che escono dalla facciata, è in rifacimento. Controllo su internet cosa diventerà – un hotel di lusso – ed è un vero peccato, perché mi piacerebbe che fosse di nuovo accessibile a tutti, come i passages a Parigi, con i loro negozi, i loro soffitti, il loro vetro, le loro insegne.
Capisco che mi sta piombando addosso una malinconia assurda, forse non immotivata vista la giornata ma certamente non desiderata, così ritorno a passo spedito verso l’hotel. Ho appuntamento con Nick per aperitivo e cena, e non voglio fare tardi.
Per strada compro un rossetto nuovo; un piccolo gesto per me, perché io sono da sempre una fervente sostenitrice dei piccoli gesti per sé. Lo metto prima di incontrare Nick; l’ho comprato alla cieca perché mi piaceva il colore, ma non ero sicura che fosse adatto al mio incarnato. Invece mi sta bene. E molto. Mi guardo allo specchio un’ultima volta prima di uscire e mi trovo bella. Sorrido della mia vanità e ne godo, anche, perché è una vanità non fine a stessa ma che deriva dallo stare bene, dal sentirsi a posto, dal non desiderare più di confondersi con lo sfondo. A volte i piccoli gesti – come comprare e mettere un rossetto nuovo, nel mio caso – sono solo la miccia per far esplodere quello che abbiamo dentro addormentato.
E io, mentre pigio il pulsante dell’ascensore, sento che mi sto risvegliando.
(continua)