Questa è la storia di un viaggio; la puoi leggere su questo blog a puntate oppure, se preferisci, la puoi leggere per intero qui.
Ofelia a Marrakech – sedicesima puntata (continua da qui)
Scorro la posta, finché un nome mi paralizza: Damienne Blois, la madre di Sami. Deve avermi cercata su internet e aver trovato l’indirizzo del lavoro. Vorrei ignorarla, non voglio sapere cosa ha da dirmi, ma apro ugualmente il messaggio. Mi rendo subito conto di aver fatto un errore, ma non riesco a staccare gli occhi dallo schermo. Il fiume di parole che scorre davanti ai miei occhi è pieno di dolore, certo, ma anche di veleno. Damienne dice che è colpa mia, che, da quando l’ho lasciato, Sami non si è più ripreso, che è diventato un altro, che la trattava male. Lei e anche il padre. E che se io non l’avessi lasciato, tutto questo non sarebbe successo e lui non si sarebbe ammazzato.
Dopo lo choc iniziale, mi assale una calma lucida. Per un attimo accarezzo l’idea di difendermi, di raccontarle tutto, di dirle che suo figlio aveva un’amante che è morta mentre io no e di questo suo figlio non è stato proprio così contento, che aveva due facce inscindibili, che l’esistenza di una – il Sami gentile con i genitori e con l’amante – era interconnessa all’esistenza dell’altra – il Sami cattivo che mi usava come punching ball per sfogare la sua rabbia, la sua frustrazione o la sua non so che cosa –, che era vero pure il fatto che trattava male loro perché lo avevo lasciato, ma non per i motivi che pensava lei, non per il dolore della separazione, ma semplicemente perché io non ero più fisicamente lì a fare da sfogo al suo squilibrio. Accarezzo l’idea di dirle tutto questo, ma so che non ha senso, o forse lo avrebbe ma non lo voglio fare; è una donna devastata dal dolore che vuole trovare una spiegazione al suicidio del figlio. Damienne si rifiuta di aprire gli occhi esattamente come mi rifiutavo io, cerca alibi e scuse per non stare peggio di come già sta. Dà la colpa a me perché per lei è la cosa più ovvia da fare. Vuole credere che Sami la trattasse male perché ferito dalla fine della nostra storia, perché è più facile credere questo che ammettere che il proprio figlio è un pezzo di merda. Mi sale la rabbia, tanta, ma riesco a separare il dolore di Damienne dalla sfilza di accuse. Comprendo la sua ricerca di un motivo, ma quel motivo non voglio essere io. Perché non lo sono. Il motivo è suo figlio, solo lui. Potrei dirglielo, ma decido di non rispondere, di non aprirle gli occhi su una verità che non è pronta a vedere, non adesso che il dolore è ancora troppo grande. Lo capirà, come l’ho capito io. E se non lo capirà, pazienza, che continui a credere che sono la strega cattiva, ma che lo faccia senza di me. Blocco il suo indirizzo e cancello il messaggio dalla posta in arrivo, dal cestino e dal server; non voglio essere tentata di guardarla di nuovo. Mi si accavallano i pensieri – Sami, accidenti a te, almeno il male ai tuoi genitori potevi evitarlo – e poi ne emerge uno, l’unico sensato. Vaffanculo, Sami. Vaffanculo.
Sento che devo far qualcosa per scaricare tutta l’energia negativa che ho in corpo, così mi infilo i pantaloncini e la maglietta ed esco a correre. Forzo il ritmo e forzo la distanza, mi concentro sui passi e con ognuno cerco di calciare via le accuse che ancora mi scorrono in testa, ma queste accuse sembrano cicche che non si vogliono staccare dalla scarpa, così le lascio fluire, lascio che mi riempiano tutto il corpo e che escano col sudore, perché è solo così che a volte le cose se ne vanno via: ci abbandonano dopo averci invaso, quando capiscono che non abbiamo più spazio per loro.
Budapest, mercoledì 8 agosto 2018
La sveglia suona alle sei meno un quarto. Ho dormito benissimo, sfinita per la corsa e per tutte le cose successe; un sonno senza sogni né incubi, solo pace e tranquillità. Mi sento leggera. Dentro di me ringrazio Damienne, perché con il suo veleno ha dato il colpo di grazia al macigno che mi schiacciava e che ero riuscita a spostare fin sulla riva del Danubio: l’ha buttato giù, definitivamente, e con lui è caduta anche Ofelia a Marrakech.
Vedere un’altra donna distrutta non solo dal dolore per la morte del figlio, ma anche dalle sue cattiverie e dal suo trattarla come un punching ball, mi ha caricato di rabbia positiva e finalmente sono riuscita a perdonare me stessa per essere stata debole, per essere rimasta troppo a lungo a farmi umiliare da Sami. Dentro di me pensavo che qualsiasi altra donna sarebbe stata più brava, più forte, pensavo che la mia fosse una tara. Mi vergognavo, mi sentivo sbagliata. Leggere le cattiverie di Damienne, una donna buona, forte ed equilibrata, mi ha fatto invece capire – e questa volta per davvero – che restare impigliati nelle spire di una situazione tossica è una cosa che può succedere a chiunque.
Mi sento bene, pronta per la passeggiata mattutina sulla collina del castello.
Prima di uscire mando un messaggio veloce a Maude e a mia sorella, per rassicurarle.
Ne mando uno anche a Gaetano.
Ofelia è annegata nel Danubio. Non ero io. Era una parassita che tentava di prendere il sopravvento e ha avuto la fine che si meritava.
Ed è vero. Ofelia è il personaggio che mi sono creata per difendermi da Sami, non è – come ho sempre temuto – una parte di me. Io non sono spenta, non sono appannata. Sono la Charlotte che è sbarcata da giovane a Parigi e si è fatta strada nel mondo, con la sua forza e sì, anche con le sue fragilità, che però non sono debolezze, sono solo l’espressione di quello che siamo tutti, cioè degli esseri umani.
Non voglio più nascondere le mie emozioni, non voglio più curvare le spalle per diventare invisibile, non voglio più stare zitta per paura di disturbare. Al contrario, voglio mettermi in gioco e rischiare.
Anche di essere felice.
Nick mi fa la bise, che ormai è diventata il nostro modo di salutarci.
«Ho un regalo per te» dice, prendendo un pacchetto dallo zaino in cui tiene tutti i suoi aggeggi. «Te lo volevo dare ieri sera, ma poi sono successe tutte quelle cose e… insomma, eccolo qua. Se ti sembra aperto è perché in effetti l’ho aperto. Volevo fartelo trovare pronto all’uso».
Lo scarto, incuriosita. È una piccola macchina fotografica istantanea.
«Quando ieri mattina mi hai detto che volevi stampare delle foto per il diario, ho pensato che una di queste poteva farti comodo, così ieri pomeriggio l’ho comprata. Non è troppo pesante ed è già carica. L’ho incartata senza scatola, ma poi ti do tutto. Spero ti piaccia».
«Speri mi piaccia? È fantastica. Grazie. Grazie mille. Dovrei dire che non dovevi, ma in realtà è bellissimo ricevere regali inaspettati».
Usciamo dall’albergo e ci dirigiamo verso il Ponte delle Catene semi-deserto. Nick scatta qualche foto e poi ci incamminiamo su per la collina come il giorno prima, solo che questa volta ci siamo solo noi, un gattino e un paio di persone che fanno jogging.
(continua)