Non aprite quelle porteOfelia a Marrakech – un racconto a puntate (17)

Budapest ponte

Questa è la storia di un viaggio; la puoi leggere su questo blog a puntate oppure, se preferisci, la puoi leggere per intero qui.

Ofelia a Marrakech – diciassettesima puntata (continua da qui)

La vista sulla città, con i colori del sole appena sorto, è stupenda. La zona intorno alla Galleria nazionale ungherese, senza altre persone oltre a noi, è qualcosa di impareggiabile. Il Danubio, Santo Stefano, il Parlamento, i ponti, l’isola Margherita in lontananza, tutto sembra fondersi in armonia; non sembra nemmeno estate e finalmente si respira. Scatto una foto al fiume per provare la macchina fotografica che mi ha regalato Nick e un corvo mi regala un grazioso photobombing; mentre aspetto la stampa ne scatto mille altre con il telefono. Mi riempio gli occhi, ma voglio fermare quegli istanti anche in modo tangibile, non solo nei ricordi.

«Allora?» mi chiede Nick avvicinandosi per vedere la foto.

«Un corvo ha deciso di posare per me. Mi sa che a breve sarò pronta anche io per il National Geographic».

«Ecco, uno ti fa un regalo e tu per ringraziarlo vuoi rubargli il lavoro. Piuttosto, ti faccio qualche foto?»

«A me?»

«Sì, certo. Ho notato che non mi chiedi mai di fartene. È piuttosto strano, in fondo siamo in vacanza, e per di più io sono un fotografo. Non vorrei che non osassi chiedermelo, ecco. Sentiti libera. Te le faccio volentieri».

«No, sì, cioè, insomma» mi incarto e poi all’improvviso opto per la sincerità. «Avere delle foto mi piacerebbe molto, ma sono veramente a disagio davanti all’obiettivo. Nelle poche che abbiamo fatto, forse l’hai notato, giocavo un ruolo – la zia buffa per Ottavio, il fiore in bocca ieri –, ma se resto come sono, esco davvero male. Non riesco a essere naturale. A volte mi compare persino un ghigno assassino. Insomma, una merda».

«Sì, temevo che fosse per questo. Non nascondo di averti osservata, fin dal Musée Jacquemart-André. E condivido quello che ti ha detto Gaetano su Charlotte–Ofelia. Ma credo che ieri sia successo qualcosa di forte e chissà, magari provando e riprovando il disagio passa».

Guardo quell’uomo schivo e capace di capirmi senza troppi fronzoli. Mi siedo sul muretto su cui siamo appoggiati e gli dico di Damienne, di quello che mi ha scritto, della mia corsa notturna, di Ofelia annegata nel Danubio, del perdono che sono riuscita ad accordarmi. Gli racconto le cose con leggerezza, perché è così che mi sento, leggera. Mi scatta qualche foto e me le fa vedere. In alcune sono orrenda, ma in altre no. Come è normale che sia. E mi accorgo che meno ho paura di apparire, di fissare la mia immagine e lasciare che gli altri la vedano, meno si vedono gli artefatti. Una foto è solo una foto, non è il giudizio universale.

«I bisonti sono più fotogenici, eh» butto lì per scherzare.

«Diciamo che c’è un ampio margine di miglioramento. Ma voglio che ti fidi di me da questo punto di vista, quindi tieni, cancella tutte quelle che non ti piacciono. Le puoi gestire tu, non terrò nessuna di quelle in cui senti di non piacerti».

Apprezzo molto questa sua delicatezza, ma voglio fare un passo in più.

«No, mi basta sapere che posso avere il controllo, se lo desidero. Sceglile tu. Considerami un koala, un rinoceronte o quello che vuoi».

Camminiamo ancora per un po’ nei cortili della Galleria nazionale. Qualche dipendente sta arrivando al lavoro, ma per il resto è ancora tutto pressoché deserto. Anche sulla funicolare appena aperta non c’è nessuno, così prendiamo due biglietti per scendere e ci godiamo in silenzio quel breve viaggio.

C’è una sorta di complicità tra di noi, forse dettata dal nostro modo di essere, a tratti simile pur essendo persone diversissime, e questo mi piace.

Mi piace tanto.

Rientriamo in hotel che non sono nemmeno le otto e ci fiondiamo a fare colazione.

«Adesso vorrei lavorare alle foto» mi dice Nick mentre beviamo un’ultima tazza di caffè, «ma poi mi piacerebbe molto passare tutta la giornata con te a zonzo per la città, se il caldo non ci uccide. Ti propongo di trovarci verso le undici, ma sentiti libera di non accettare. Non siamo obbligati a stare troppo tempo insieme…»

Lo interrompo.

«Invece accetto. Mi piace camminare con te. A dopo».

Mi alzo e torno in camera a riposare dopo la levataccia.

È vero, mi piace camminare con lui. Camminiamo morbidi, non troppo vicini, non troppo lontani. Ci adeguiamo fluidi al passo dell’altro, senza perdere però le caratteristiche del nostro. Ho sempre pensato che esistono persone che sanno camminare insieme e persone che non ne sono capaci, o forse semplicemente non lo vogliono e va bene così. Io e Nick sappiamo camminare insieme. Ci rispettiamo nella camminata come ci rispettiamo nella vita. Aspettiamo l’altro quando si ferma a fare qualcosa – una foto, uno sguardo più approfondito a un particolare che cattura l’attenzione – e ci fermiamo quando siamo noi a sentire questo bisogno. Senza problemi, senza complimenti.

Sono felice che mi abbia proposto di passare la giornata insieme. Ne ho bisogno. Ho bisogno di svagarmi e di lasciarmi andare. Ho bisogno della sua presenza pacata.

Mi chiedo che tipo di padre sia e anche che tipo di marito. Sono curiosa. Lui e la ex-moglie mi sembrano persone civili e mature, come mia sorella e Carlo. Esistono storie che vanno avanti e storie che finiscono, ma non tutte per fortuna in modo tragico come la mia.

Apro il quaderno di viaggio, scrivo qualche nota e attacco la foto con il corvo photobomber.

Che belli, i regali inaspettati.

Alle undici la temperatura è già alle stelle, ma io e Nick siamo avvolti in una bolla di sete di conoscenza e di voglia di fare che ci protegge dalla fusione. Attraversiamo il Ponte delle Catene, che ormai conosciamo come le nostre tasche, e poi ci lasciamo guidare dall’istinto. Percorriamo vie affollate e stradine deserte, vediamo finestre curate e vetrine abbandonate ricoperte di collage, superiamo comitive di turisti e muratori in pausa pranzo. Budapest mi piace, è elegante e trasandata allo stesso tempo, ma la contraddizione la rende più vera, più autentica. Mangiamo mac&cheese davanti alla Basilica di Santo Stefano e ridiamo di noi, perché lo stiamo facendo in Ungheria con ottanta gradi all’ombra; beviamo litri di limonata per placare la sete e ci prendiamo pure un gelato, che ha un buon sapore nonostante sembri sbriciolarsi. Poi continuiamo a camminare, alternando chiacchiere e silenzi, scattando qualche foto, alcune con le fotocamere, altre solo con gli occhi. Mi innamoro di Andrássy út, un viale immenso con edifici dagli splendidi ingressi, chiedo a Nick di provare la metropolitana per un fermata, solo per il gusto di farlo perché in realtà non ci serve, lo guardo scattare foto a quella che sembra in tutto e per tutto una banchina newyorchese. L’Opera è in rifacimento e ne perdiamo la facciata, ma quelle dei palazzi che ci circondano non sono da meno. Alla fine decidiamo di entrare nella Casa del Terrore, il museo del comunismo, per rinfrescarci con dell’aria condizionata, ma quello che vediamo più che rinfrescarci ci gela. Quando riemergiamo dal quel teatro di morte e di orrori, persino il caldo ci sembra bello; è tardo pomeriggio, ormai, e decidiamo di rientrare. Sul Ponte delle Catene, mentre attraversiamo il Danubio dove è annegata Ofelia a Marrakech, il mio sguardo cade sul Bastione dei Pescatori, sul fianco della collina, e sull’orribile costruzione – forse un albergo – che gli sta accanto. L’eleganza e la trasandatezza stavolta non si fondono, sono anzi un pugno in un occhio, ma decido di immortalare ugualmente quel momento per metterlo nel mio quaderno, una sorta di omaggio alle contraddizioni, al bello e al brutto che abbiamo tutti dentro di noi.

Quando arrivo in camera, mi rendo conto di essere sfinita. Mi butto sotto la doccia e poi, ancora umida, mi sdraio sul letto, sopraffatta dal caldo e dai chilometri.

Prendo il telefono e mando un messaggio a Nick.

Se vogliamo davvero cenare nel ristorante che abbiamo visto vicino all’Opera, chiamiamo un taxi. Sono cotta.

La risposta non tarda ad arrivare.

Birra belga qui sotto?

Sorrido al telefono, grata.

(continua)

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