Non aprite quelle porteOfelia a Marrakech – un racconto a puntate (18)

Vienna

Questa è la storia di un viaggio; la puoi leggere su questo blog a puntate oppure, se preferisci, la puoi leggere per intero qui.

Ofelia a Marrakech – diciottesima puntata (continua da qui)

Budapest/Vienna, giovedì 9 agosto 2018

Quando apro gli occhi, mi rendo conto che c’è qualcosa di strano. Cerco a tentoni il telefono sul comodino per guardare l’ora, ma non lo trovo. Allora accendo la luce e il quadro si fa più chiaro: sono vestita, il mio orologio dice che manca qualche minuto alle cinque e sono chiaramente nella camera di Nick, visto che lui dorme accanto a me. Sul comodino non c’è il mio telefono, ma c’è un biglietto.

Ti sei assopita mentre guardavamo le foto e, dato che sembravi stanchissima, ho deciso di lasciarti riposare. Scrivo questo biglietto nel caso ti svegliassi e ti domandassi cosa ci fai qui.

Faccio mente locale e l’ultima immagine che ho è quella di noi due seduti sul suo letto davanti al computer. La mia curiosità per alcuni lavori di Nick in Africa ha dato evidentemente forfait davanti alla stanchezza per i chilometri macinati.

Spengo di nuovo la luce, per non disturbare Nick. È in maglietta e pantaloncini e dorme beato. Lascio che i miei occhi si abituino alla debole luce che entra dalla finestra, poi recupero scarpe e borsa e scrivo un biglietto anche io. Grazie. Solo l’essenziale, nessuna parola superflua. Sorrido a quell’uomo la cui vicinanza mi sembra così naturale e, prima di andarmene, gli do un bacio leggero sulla fronte. Lo faccio senza pensarci, perché finalmente ho smesso di pensare a ogni minimo gesto.

E di pesarlo, soprattutto.

Alle dieci siamo pronti per lasciare l’hotel.

Mentre ci allontaniamo dalla città in silenzio, ringrazio mentalmente Budapest e il Danubio, che si sono presi Ofelia e quella parte di me che si era lasciata incastrare da Sami. So che ci saranno ancora dei momenti Ofelia, come per tutti gli esseri umani, ma adesso so anche che saranno sani e non malati come sono stati finora. Una fragilità naturale, non patologica. So che ci saranno persone che mi feriranno ancora e che tenteranno di far presa sulle mie debolezze, ma si chiama vita e non mi spaventa più. Non voglio negarmi il bello per paura del brutto, non voglio più attutire le mie sensazioni per non farmi troppo male, non voglio più un guscio protettivo che diventa gabbia.

Mi godo gli ultimi pezzi di Ungheria, il giallo dei girasoli e l’azzurro del cielo. Fa caldissimo fuori, ma l’aria condizionata rende il viaggio piacevole.

Per pranzo decidiamo di fermarci sul Neusiedler See, un lago al confine tra l’Ungheria e l’Austria che conosciamo entrambi: io ci sono venuta qualche volta da piccola con la mia famiglia, Nick ha fatto diversi servizi fotografici ai numerosi uccelli.

Il nostro entusiasmo si spegne non appena usciamo dalla macchina: c’è vento, sì, ed è molto piacevole, ma ci sono anche trentasei gradi, che sembrano cinquanta e che ci tolgono il respiro. Facciamo due passi giusto per ammirare le acque torbide – il panorama è suggestivo e non si può negare, del genere che piace a entrambi –, ma poi ci ri-fiondiamo in macchina ed entriamo nel primo supermercato che troviamo. Pranziamo così, in viaggio verso Vienna, con dei panini al formaggio e l’aria condizionata a palla. Secondo le previsioni del tempo, dovrebbe rinfrescare a breve. Lo spero vivamente, perché Vienna è una città che ho sempre amato e ho intenzione di macinare chilometri su chilometri.

L’hotel è accanto al castello del Belvedere, leggermente più decentrato rispetto a quello di Budapest. È una bella zona residenziale, calma e senza la folla brulicante dei giorni precedenti.

Sono le tre, quando arriviamo, e ci diamo appuntamento per le sette, per una passeggiata prima di cena. Le ampie finestre della mia camera danno sul giardino dell’università e la cosa mi fa sorridere. Lavorare con Gaetano mi piace, ma la Sorbona e l’insegnamento mi mancano. Non mi sono pentita di essermi licenziata, quello no, andarmene da Parigi mi era necessario, solo che ogni tanto la nostalgia si fa sentire. Credo sia naturale, come naturali sono i cambiamenti.

Faccio una doccia per togliermi di dosso il caldo e poi mi siedo alla scrivania per dedicarmi al diario di viaggio. Attacco una foto del lago e provo anche a disegnarlo. Non ci sono messaggi inopportuni, la mia mente è libera, il lavoro creativo mi rilassa e io respiro, tranquilla. Approfitto dello stato di beatitudine per scrivere a Gaetano, a Maude e a mia sorella. Gaetano mi manda delle foto della sua mostra, che sta avendo un gran successo come era prevedibile, e di Gregory appeso a un muro intento a sistemare una delle opere; mia sorella mi dice che sta per partire per l’Île d’Oléron con Carlo e i ragazzi; Maude mi confessa di aver fatto ricerche online su Nick, perché era molto curiosa a riguardo.

Tra di voi nulla?, mi domanda con la solita schiettezza. Le rispondo che la notte precedente abbiamo dormito insieme, ma come fratello e sorella. Una perfetta coppia di compagni di viaggio, le scrivo. Ed è vero, lo siamo. Mi chiedo se potrebbe nascere qualcosa tra di noi. Chissà. Una storia al momento non è nelle mie priorità.

Quello che voglio fare è godermi Vienna, le sue strade, i suoi parchi, e anche una bella fetta di torta Sacher. Voglio respirare con calma, come mi sono accorta di fare in macchina accanto a Nick. Con Sami a volte inconsciamente trattenevo il fiato, per fare meno rumore possibile, per diventare invisibile e fondermi con il sedile, per non dire cose sciocche e innocenti che mi si sarebbero ritorte contro. Respirare è esistere, smettere di farlo è non esistere più.

Guardo fuori della finestra, mi concentro sui particolari. L’aria condizionata non funziona benissimo, ma non mi importa; la carta igienica è simile a carta vetrata, come del resto lo era anche a Budapest, ma non mi importa nemmeno di questo. C’è la grande finestra a compensare queste piccole imperfezioni e va bene così.

Bisogna mantenere lo sguardo aperto.

Quando usciamo dall’albergo, penso che, se quel caldo continuerà, è certo che impazzirò. Mi vedo già in cima alla ruota del Prater a imprecare contro il mondo e un anticiclone a caso, perché i periodi di caldo torrido sembrano sempre colpa di un anticiclone. Cosa poi sia di preciso, non mi è dato sapere.

«Sai niente degli anticicloni?» butto lì a Nick, che mi guarda basito.

«Quasi nulla, a dire la verità. Tu?»

«Nemmeno io, ma se qui non rinfresca preparati a vedermi dare di matto. Ma torniamo a noi, che si fa? Io entrerei nei giardini del Belvedere e poi mi dirigerei verso il centro».

«Affare fatto, così nel frattempo tiriamo l’ora di cena».

«Ti ricordo che sono le sette e siamo in Austria. L’ora di cena è scoccata da un pezzo, ma anche io stranamente non ho ancora fame. Te l’ho detto che questo caldo mi scombussola».

«Ottimo, perché c’è una luce fantastica e vorrei farti delle foto. Non guardarmi così. Non accetto no».

Entriamo nei giardini, che sono bellissimi e pieni di statue e fiori. Non c’è quasi nessuno, forse perché appunto sono tutti a cena, e c’è un bel vento che mi scompiglia i capelli. Passeggio sotto l’obiettivo di Nick, ma non mi sento sotto osservazione. Faccio la scema, anche.

«Ed ecco il famoso fotografo Dominick Yacine, che segue una mucca Highlander avventuratasi impavida nel giardino del perfido Stronzo Stronzis. Riuscirà il nostro eroe a immortalarla mentre mangia la rarissima rosa arcobaleno del conte?»

«Adesso devi mangiare davvero un fiore, però, altrimenti la storia non regge».

«E se mi arrestano?»

«Sei una cagasotto».

Vedo una viola del pensiero, che ricordo essere commestibile, ne strappo furtiva un petalo, manco stessi rapinando Fort Knox, e lo metto in bocca.

Che bella, la leggerezza.

Camminiamo verso il centro. Potremmo prendere un tram, ma siamo entrambi degli irriducibili delle città viste a piedi. Infilare passi uno dietro l’altro mi piace; è rilassante, terapeutico, aiuta a pensare e pure a non pensare, fa scoprire angoli bellissimi o bruttissimi, a seconda del caso, ma tutto è parte di un bagaglio a cui non saprei mai rinunciare. A volte camminare fa anche detestare la gente, come quella che c’è intorno a Santo Stefano. Tanta, tantissima. Scappiamo in una stradina laterale per non venire inglobati dalla massa e ci muoviamo a caso, senza meta. Ci imbattiamo nella casa di Mozart, prima, e in un ristorante coreano che sembra fare al caso nostro, poi. Lì, sotto un condizionatore che esala solo un refolo agonizzante, agonizziamo anche noi, perché decidiamo di ordinare un misto di specialità della casa che sembra non finire mai. Usciamo sazi e soddisfatti; anche un po’ stanchi, in verità, ma non cediamo all’ammiccamento dei taxi e attraversiamo lo Stadtpark, bellissimo con tutte le lucine estive.

Qualche volta i sacrifici vengono ripagati.

(continua)

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