In un anno e oltre di pandemia, due sono le categorie al centro della narrazione in corso: persone giovani e anziane. Il modo in cui esse sono state raccontate è un’utile cartina al tornasole per comprendere il clima culturale nel nostro Paese, in tutta la sua tragedia. Sì, perché il dibattito, a mio giudizio almeno, non ha mai centrato il punto della questione. Ha cercato invece categorie su cui scaricare il peso di ogni criticità: anziani e giovani, appunto.
Faccio un passo indietro: scorrendo i social, mi sono imbattuto nel commento di Marco Vassalloti, militante in Possibile che sulla sua bacheca scriveva: «Sì, però basta. Posso dire che mi sono rotto? Ma esattamente cosa vi hanno fatto di male i “giovani”, tanto da meritare di essere cazziati dal Presidente del Consiglio in diretta nazionale?». L’attivista continua: «Non bastava aver messo le nostre vite in pausa per un anno e mezzo? Non bastava aver rinunciato a scuola e università, a uscite, socialità, divertimento?». E ancora: «Non bastava vivere con la paura di contagiare genitori, zii, nonni? […] Non bastava la retorica sui runner e sugli aperitivi all’aperto, quando sappiamo benissimo che la maggior parte delle persone si è contagiata al chiuso, magari a lavoro o sui mezzi pubblici, magari perché le condizioni di sicurezza che dovevano garantire le istituzioni non sono state un cazzo garantite?».
Quando la pandemia era roba da vecchi
Uno sfogo che centra il punto. E il punto è: chi doveva raccontare, lo ha fatto col mirino puntato sulle fasce giovanili. Non tutti, sia chiaro, ma la narrazione emersa è quella. Ricordate la polemica sui runner? In un momento in cui si doveva stare a casa, la possibilità di poter fare un po’ di sport secondo decreto – e quindi a norma di legge – diveniva espediente per uccidere nonne, zie e vecchierelle di ogni ordine e grado. Peccato però che fino a qualche mese prima il covid-19 era stato fatto passare per malattia che uccide per lo più gli anziani, con quell’immancabile eco del fottesega di sottofondo, tipico dei soggetti privilegiati (boomer, in linguaggio giovanile). Questa la primissima narrazione, ricordate? In quel contesto, va ripresa la lettera di Michela, compagna di Beppino Englaro, che scriveva a inizio pandemia: «Purtroppo il coronavirus è visto come il virus che fa morire i “vecchi”. Io ho 50 anni e Beppino 79, ma i sentimenti sono gli stessi che possono avere coppie ben più giovani di noi. Purtroppo si tende a giustificare queste morti in quanto vecchi senza pensare quanto ancora possono dare a tutti noi».
Le parole pandemiche: runner, Navigli e movida
Poi, il problema ha toccato tutti e tutte. I boomer hanno avuto paura e si è cercato un primo capro espiatorio. I runner, in ordine di tempo. E chi è che va a fare corsa nei parchi? La gente giovane, appunto. Equazione sussurrata, non evidente. Ma i media consegnarono proprio loro, giovani e adolescenti, in pasto agli sceriffi da balcone. Poi alle prime riaperture, ci si indignò per gli aperitivi ai Navigli. Con tanto di immagini di gente schiacciata tutta insieme – per lo più ragazzi/e con la birra in mano – e pazienza se in diversi casi le stesse immagini viste dall’alto davano una prospettiva diversa (e distanze mantenute). Poi va da sé, le irregolarità ci sono e vanno deprecate. Quindi c’è stato il libera tutti dell’estate. Discoteche aperte incluse. E non le hanno aperte i ventenni, ma appositi decreti. E se apri bar, ristoranti e locali, lo fai per un’unica ragione possibile: affinché la gente ci vada. Lo scopo dovrebbe essere, se le mie scarse competenze in economia non mi ingannano, quello di far girare (appunto) l’economia. Ma dopo “runner” e “navigli” un nuovo temibile vocabolo è comparso su tutti i media, foriero di ogni apocalisse prossima ventura: la movida.
E quando a settembre è tornato a circolare il virus, è stata tutta colpa di chi in estate ha fatto aperitivi e movida. E che magari tra marzo e maggio se ne andava pure a correre. In tutto ciò, in quest’ultimo anno, si sono chiusi tutti i luoghi per giovani: palestre, cinema e last but not least scuole e università. L’altra sera, a Piazza pulita, commentatori e commentatrici riflettevano sul fatto che lo Stato ha mandato un messaggio chiarissimo alle giovani generazioni italiane: la scuola è un bene sacrificabile.
Le faglie del sistema Italia nella gestione della pandemia
In questa gara mediatica in cui si fa(ceva) la conta dei morti e in cui il capro espiatorio era sempre lì, a bere alcolici o a fare sport o – peggio ancora – ad andare in vacanza o al mare, i nostri anziani e le nostre anziane continuavano a morire. E continuano a farlo. Per covid-19. Mesi e mesi di zone colorate, dopo un lockdown di cui piangeremo le conseguenze (spoiler: non sarà bello), per arrivare a un punto in cui i decessi sono altissimi e il piano vaccinale suscita non poche perplessità. Riporto dall’Huffinghton Post: «L’Italia è l’unico grande Paese europeo in cui, da febbraio a marzo, malgrado l’arrivo dei vaccini, il numero dei morti è aumentato, passando dai 38 decessi per milione di abitanti a febbraio ai 43 di marzo». Perché tutto questo? «La ragione numero uno è che l’Italia, sui vaccini, “ha fatto altre scelte” rispetto all’unica raccomandazione avanzata già lo scorso ottobre nel primo studio sugli effetti potenziali della vaccinazione: mettere in sicurezza le fasce fragili della popolazione; soltanto dopo, tutti gli altri». Ma la colpa non era della movida di luglio?
Una nuova perniciosa categoria: lo psicologo di 35 anni
L’ultimo atto di questa narrazione ce lo fornisce il nostro amatissimo presidente del Consiglio, Mario Draghi, che durante una recente conferenza stampa ha dichiarato: «Con che coscienza un giovane salta la lista e si lascia vaccinare?» prendendo di mira la nuova perniciosa categoria, responsabile di tutti i mali, pandemia inclusa: gli psicologi di 35 anni. Quando bastava leggere il decreto in vigore che scoprire che è stato proprio il governo a imporre a quella categoria di vaccinarsi, pena l’impossibilità di esercitare. Ma c’è di più, come sottofondo, in tutta questa narrazione. Che tocca le classi d’età più giovani e le loro attività.
Il benessere? Una colpa
Scuola, sport, vita sociale, collettività sono cose che contribuiscono al benessere della persona. La narrazione dominante non ha solo stigmatizzato giovani e adolescenti – usando strumentalmente le persone anziane, per far leva sul senso di colpa – ma ha messo sul bancone degli imputati il concetto stesso di benessere. Forse anche a causa di una mentalità diffusa per cui il piacere è colpa (siamo pur sempre un paese “cattolico”). E a ben guardare, le parole usate da Draghi puntano il dito su entrambe le dimensioni: benessere (anche mentale, che rientra nella sfera della psicoterapia) e giovinezza. Lo psicologo di 35 anni ha, insomma, tante cose da farsi rimproverare. E no, non è (solo) il vaccino “rubato” saltando la fila, mentre i vecchi continuano a morire (anche di solitudine da pandemia, per altro). È giovane e può far star bene. E ciò è imperdonabile.
La classe politica non ha fatto il suo lavoro
Ovviamente non voglio dire che Draghi abbia coscientemente fatto quest’associazione per denigrare categorie professionali intere e per classi d’età. A parer mio è vittima di quella narrazione diffusa che, da più di un anno, ci ha reso sceriffi da balcone e da tastiera che guardano con livore coloro che provano a vivere la vita, nonostante la pandemia. E ripeto: non parlo di atteggiamenti irresponsabili, che vanno giustamente criticati. La narrazione in campo non punta l’indice, invece, sul fatto che per troppo tempo la sanità è stata tagliata, che il sistema dei trasporti non è (stato) adeguato, che la classe politica forse non ha fatto proprio bene bene il suo lavoro (e qui Draghi ha responsabilità limitate al periodo del suo mandato, va da sé), che la campagna di vaccinazione presenta troppe contraddizioni. Ma per chi si ferma ai titoli (ed è la maggior parte del pubblico da social network) chi è colpevole è giovane e vuole divertirsi. Per uccidere nonna. Che magari aspetta il vaccino, destinato ad altre categorie. Per decreto, magari.