Strani giorniZerocalcare, il romanaccio e il “rosicare” come arte o missione di vita

frame tratto da Youtube

La polemica di questi giorni su Zerocalcare – e che sta popolando le bacheche in cui sono immerso insieme alla mia bolla social – mi fa tornare con la memoria alla querelle su Simone, l’adolescente romano che si mise a muso duro (e con grande coraggio) contro alcuni militanti dell’estrema destra romana col suo “romanaccio” di periferia. Allora feci notare, sempre da questo spazio (ospitato su Linkiesta, da cui è partita la polemica sul fumettista romano), che il mezzo linguistico del ragazzo era poderoso: arrivava a chi doveva arrivare e lo faceva con gli strumenti più adeguati.

L’orrore verso tutto ciò che sembra “popolare”

Adesso, come allora, sembra di rivedere lo stesso copione: una borghesia ben arroccata nel suo privilegio e adeguatamente a distanza dalla strada e dalle periferie, che dimostra in buona sostanza due cose. Il proprio orrore di fronte a tutto ciò che sa di “popolare”, in primo luogo. In seconda istanza, l’incapacità di comprendere che c’è vita, oltre ai bar fighetti dei viali dei Parioli dove si va a prendere il tè al cardamomo e oltre il ristorante fusion a Prati in cui mangiare un’oliva accompagnata con un chicco di melograno su una spennellata di purè di papaya in piatti grandi come piazza Tienanmen e a prezzi inversamente proporzionali al quantitativo che ti trovi nel piatto.

La dialettofobia dietro le critiche a Zerocalcare

Al netto delle dinamiche, sempre uguali a se stesse, noto però che a questa tornata di indignazione linguistica sembra emergere un aspetto che una parte della nostra élite culturale ha sempre tenuto nei confronti di tutto ciò che non coincide con lo standard. E non è solo purismo, ma qualcosa di più profondo: dialettofobia. Niente panico, non è un termine nuovo e non me lo sono inventato adesso, sulla scia delle varie -fobie che popolano il discorso pubblico (il dibattito sulla legge Zan ha portato alla ribalta il problema dell’omo-bi-lesbo-transfobia, ad esempio). Si tratta, invece, di un fenomeno abbastanza datato nel nostro panorama culturale. Già il fascismo, per non andare molto lontano, aveva provato a combattere – fallendo anche in questo – gli idiomi locali. All’epoca il discorso era intriso di un certo nazionalismo, oggi sembra essere poco più che snobismo fine a se stesso. E quindi sostanzialmente inutile.

L’arte di rosicare

Non sono un fan di Zerocalcare. Sostanzialmente potrei anche infischiarmene delle cose dette su di lui, sulla serie trasmessa su Netflix e su tutte le polemiche imbastite ora a favore del disegnatore, ora a sostegno della sua non estimatrice. Ma quando sgorga in te il sospetto che altri/e facciano del “rosicare” – come si dice a Roma e che vuol dire logorarsi l’anima, o struggersi per l’azione di terzi, specialmente se non si è in grado di poter intervenire” (mai sia che qualcuno/a inorridisca di fronte al ricorso al regionalismo) – un’arte o una missione di vita, il disimpegno diventa complicità e lì non puoi non prendere una posizione.

L’italiano e le sue varianti

Posizione che vorrei supportare con due discipline a me care: la storia e la linguistica. Partendo dall’ultima. Quando fai delle  scrittura una professione dovresti (ri)conoscere la realtà della materia linguistica con cui ti guadagni da vivere. E dovresti sapere che abbiamo sia le varianti della lingua – in termini generali – sia le varietà dell’italiano. Queste ultime sono, nell’ordine: italiano standard e neostandard, gli italiani regionali e l’italiano popolare. Fino ad arrivare ai dialetti veri e propri. Zerocalcare gioca attraverso la variazione diastratica e diatopica. Tradotto, per i non addetti e le non addette ai lavori: usa una lingua popolare e regionalmente connotata. Facendola ancora più facile: parla e scrive in romanaccio. Non perché non sappia parlare italiano (se avete dubbi in materia, guardatevi qualche puntata di Propaganda live), bensì per una questione stilistica.

Tra dialetto, cinema, poesia e letteratura

Non è una novità nel panorama letterario e artistico italiano: si pensi a Trilussa e alle sue poesie, per fare un solo esempio. E non solo. Si pensi alla musica melodica e neomelodica napoletana. Si pensi al filone neodialettale, sempre in musica (ricordate i 99 Posse?) o ancora più recentemente allo stile di Achille Lauro che lascia emergere il suo regionalismo sul piano più squisitamente fonetico. Pensiamo alla produzione dialettale vera e propria di Franco Battiato e Carmen Consoli, con capolavori quali Stranizza d’amuri e A finestra. Certo, generi e produzioni diversi, ma con un fil rouge – è francese, letteralmente “filo rosso”, cioè legame concettuale e tematico (mai sia che qualcuno/a si smarrisca di fronte al ricorso agli esotismi) – unico: le varietà regionali.

Polemiche inutili

Mettere all’indice una scelta stilistica siffatta – che, per carità, può non piacere e questo è legittimo – significa disconoscere una tradizione e una storia: quella dell’italiano e delle sue varietà, appunto. E torniamo a quanto detto in precedenza. La ripeto, perché repetita iuvant e meminisse iuvabit (è latino, niente paura): quando fai della scrittura una professione, dovresti (ri)conoscere la realtà della materia linguistica con cui ti guadagni da vivere. In caso contrario, è grave. Se fingi, invece, fai solo caciara (sì, è un regionalismo anche questo). E non sappiamo cosa farcene, come certe polemiche fini a se stesse, come già detto.

La polvere e la storia

E ancora, guardiamo un po’ alla storia della nostra televisione e del cinema. Da Pasolini al neorealismo. Passando per Aldo Fabrizi, Totò e Peppino e pure Sora Lella. Arrivando ai giorni nostri, più o meno recenti. Perché diciamoci la verità e diciamocela tutta. Se dopo I ragazzi della terza C e anche I ragazzi del muretto, dopo Roma capoccia e I Cesaroni, dopo i film di Verdone e tutta la fiction e la filmografia regionalistica ambientata nella capitale – vedi Suburra – non capisci il romanesco, la colpa non è di Zerocalcare. Il problema è che non hai sviluppato un’adeguata intelligenza linguistica. E se lavori con l’italiano questa, più che una colpa, è una tragedia. Per tutte le ragioni finora addotte. Oppure sei in malafede. E qui torniamo ad un concetto già espresso. Quella sospetta arte del rosicare che ti fa sollevare inutili polveroni. E la polvere, nella storia, serve solo a ricoprire opere, film e libri, non certo ad oscurarne il contenuto. Vale anche per quelli in dialetto.

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