Quando i lavoratori si salvano comprando la fabbrica

Quando i lavoratori si salvano comprando la fabbrica

Fino a poco tempo fa si chiamava Ceramica Magica. Aveva 160 dipendenti e clienti americani. L’azienda era lì, a Scandiano, provincia di Reggio Emilia, dagli anni Sessanta. Una delle tante fabbriche del distretto della piastrella che ruota attorno a Sassuolo. Nel 2006 il mercato americano entra in crisi, i clienti spariscono, la magia finisce. «Le cose iniziano ad andar male anche per noi – racconta l’ex direttore tecnico Antonio Caselli – nel maggio 2008 siamo entrati in concordato e poi in liquidazione. Poi la proprietà ha venduto il marchio e nel marzo 2010 abbiamo dovuto fermare gli stabilimenti». A questo punto, però, i dipendenti non rimangono a guardare. Operai, impiegati e dirigenti impegnano le loro indennità e i tfr – praticamente tutto quello che hanno – e decidono di dare vita a una cooperativa che rilevi la fabbrica. Da giugno 2011 sono ripartiti con un nuovo nome, Greslab, e i lavoratori da dipendenti sono diventati proprietari.

Tecnicamente si chiama workers buy out (wbo). E quello della Greslab di Scandiano è solo il caso più recente. In pratica si tratta dell’acquisto dell’azienda da parte dei lavoratori. Negli Stati Uniti è una procedura frequente, anche grazie all’intervento dei fondi pensione. In Italia è ancora poco usata – da noi di solito si fa ricorso al buy out quando ci sono problemi di ricambio generazionale, casi in cui l’imprenditore è il proprietario di un’azienda sana, ma vuole lasciare e non ha “eredi” disposti a impegnarsi. Ora la tendenza sembra essere cambiata: basta guardare i numeri di Coopfond, il fondo delle cooperative. Dal 1994 al 2007 le operazioni di questo tipo in cui è intervenuto il fondo sono state 14, circa una all’anno; dal 2008 ad oggi sono già 19, di cui 6 già avviate e 13 in corso. Totale: 400 posti di lavoro salvati.

«Quando ci siamo fermati non c’erano proposte serie per far ripartire lo stabilimento – ricorda Antonio Caselli, che oggi è diventato il presidente della cooperativa – ma noi avevamo capito che si poteva fare una fabbrica che producesse e basta, anche senza marchio». Così, ai soci lavoratori che hanno messo i soldi di tasca propria, si sono aggiunti come soci finanziatori i fondi di Legacoop e tre società commerciali del distretto di Sassuolo, che da sole garantiscono il 60% della produzione. La strategia è quella della specializzazione: «Il distretto di Sassuolo ha sofferto moltissimo, produceva 600 milioni di metri quadrati di piastrelle, adesso sono quasi la metà: 350. Moltissimi forni hanno chiuso. Ma quello che è entrato in difficoltà è il sistema tradizionale, quello padronale dove ogni azienda gestiva tutte le fasi. Noi invece mettiamo a disposizione i know how produttivi, ma le reti di distribuzione e commercializzazioni non sono nostre». Così e arrivata la via d’uscita: «Abbiamo prodotto da subito i materiali che producevamo anche in passato – continua Caselli – l’obiettivo è quello di fatturare 12 milioni di euro nel 2012 e di tornare agli stipendi pre-crisi. Noi dirigenti ci siamo autoridotti il salario del 15%, tutti insieme abbiamo deciso che il 20% dello stipendio fosse variabile, legato agli utili che raccoglieremo a fine anno. Se le cose andranno bene potremo assumere anche altro personale, ora siamo in 30 ma in un anno dovremmo arrivare a 45 lavoratori».

Ma di che cosa c’è bisogno perché il workers buy out funzioni? «Se si fa solo per disperazione, non basta. Certo, ci vuole la volontà di salvare il posto ma anche tanta voglia di costruire, di stare sul mercato», spiega Aldo Soldi, direttore generale di Coopfond. I requisiti richiesti per sostenere un progetto del genere sono stringenti: «Bisogna prima risolvere il rapporto con la proprietà e chi curava il fallimento, raggiungere poi un accordo coi sindacati e, nel frattempo, aver tenuto un buon rapporto coi fornitori», dice Soldi. Se manca qualcosa, l’impresa diventa complicata: «Mica tutte le operazioni vanno a finir bene – continua Soldi – non dimentichiamo che si tratta di attività che sono fallite, non è che partono sulle ali del successo, anzi». Se si superano le difficoltà, invece, gli obiettivi raggiunti sono importanti: «Così si sono salvati mestieri che rischiavano di scomparire, vere è proprie eccellenze del made in Italy», sottolinea il manager.

È il caso di Art Lining, azienda che produce gli interni per cravatte di alta moda. Da Ferragamo a Hugo Boss, per capirci. Qualcosa che difficilmente potrebbe soffrire la concorrenza cinese. Eppure, investimenti avventati della vecchia proprietà l’avevano portata alla chiusura. «Ci avevano dato per morti, ora stiamo riconquistando la fiducia passo dopo passo», dice il presidente Roberto Ferrari. Dei 40 dipendenti della fabbrica, undici non si danno per vinti. «In tre mesi – continua – abbiamo deciso di metterci in gioco. Ognuno di noi ha investito 10mila euro, di cui 6mila dalla mobilità».

Così sono ripartiti, anche loro con una riduzione rispetto alla vecchia attività, esternalizzando ad esempio la produzione della stoffa: «Ora ci limitiamo a tagliarla e confezionarla, ma il lavoro è in crescita e andiamo avanti, un passo dopo l’altro», spiega Ferrari. «Riuscire a salvare le straordinarie competenze di questi lavoratori vuol dire fare un intervento a beneficio della collettività», afferma Soldi. Altrimenti il rischio è quello di perdere definitivamente queste professionalità, è quello che sarebbe capitato a Empoli se la locale Vetreria non fosse ripartita proprio lo scorso aprile. Qui i dipendenti prima di avviare il wbo hanno fatto una selezione interna, individuando i più motivati. I risultati si sono visti subito.

Uno dei problemi delle Vetrerie Empolesi era un assenteismo molto alto, sei mesi dopo la trasformazione in cooperativa il tasso è crollato: le assenze che prima si registravano in un giorno adesso si verificano in un mese. Così, ancor prima di chiedere i finanziamenti, sono partiti e per sei mesi hanno testato il mercato, per capire se c’era lo spazio per l’attività e per il prodotto cui stavano pensando. La risposta è stata positiva. «Loro fanno il vetro soffiato, un mestiere raro – dice Soldi – appena messa in piedi la cooperativa si sono subito posti l’obiettivo di aprire una scuola di formazione dove si formino giovani».

L’elenco di lavoratori che salvano l’azienda potrebbe continuare ancora con la modelleria D&C di Vigodarzere, nella pianura padovana, tornata a produrre stampi per le fonderie; o la tipografia senese Cooprint che ha ripreso a fare stampe artistiche e manuali, per limitarsi ai casi più recenti. Per arrivare fino ai pionieri del settore: l’industria plastica Toscana di Scarperia, in provincia di Firenze. Loro, nel 1994, furono i primi a mettersi insieme per comprarsi l’azienda. Allora producevano sacchetti e pellicole per il pane, oggi si preparano a realizzare shopper biodegradabili con macchinari nuovi di zecca.

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