FonSai? “A noi furbetti ci avrebbero fucilati”

FonSai? “A noi furbetti ci avrebbero fucilati”

Il conto con la giustizia è stato saldato un mese fa. Ma si è saputo solo l’altro ieri. Gianpiero Fiorani, il banchiere chiave dell’estate degli scandali bancari nel 2005, è tornato un uomo libero. Ha finito di scontare la condanna per il reato di falso in bilancio (3 anni e 6 mesi) e la pena (3 anni e 3 mesi) patteggiata per i reati di associazione a delinquere, truffa e appropriazione indebita emersi nell’ambito della scalata ad Antonveneta. Per la verità, restano ancora aperti alcuni filoni minori, legato agli scandali di “Bancopoli”, ma per Fiorani, con questa sfilza di reati, il grosso è fatto. 

La notizia, confermata dagli avvocati, non ha trovato grande eco sulla stampa. Forse perché di acqua sotto i ponti ne è passata dai tempi dell’estate dei «furbetti del quartierino», e pochi hanno voglia di tornare su vecchie storie di finanza spericolata che hanno bruciato diverse carriere, fra cui quella dell’allora governatore della Banca d’Italia, Antonio Fazio. Forse perché ricordare l’estate dei furbetti oggi potrebbe stimolare parallelismi pericolosi quanto imbarazzanti con l’aggregazione Unipol-Fondaria Sai, congegnata da Mediobanca e finita sotto i riflettori della Procura di Milano. Paragoni imbarazzanti soprattutto per chi allora esaltava la logica di mercato e criticava il riassetto bancario nazionale (Antonveneta alla Bpl, Bnl a Unipol) secondo la logica di sistema, sostenuta allora da Bankitalia, e oggi dalla Consob di Giuseppe Vegas. 

Le differenze fra l’«estate dei furbetti» e quella del «salotto marcio» sono tante, eppure ogni giorno che passa si accumulano indizi e cresce la sensazione che le due storie e soprattutto la logica che le muove siano più simili di quel che sembra. Tanto che nell’entourage di Fiorani, oggi c’è chi sbotta: «Il trattamento che stanno ricevendo questi signori è molto diverso… per le cose che si leggono oggi sui giornali, a noi ci avrebbero dato la fucilazione sul posto». Mantenendo il profilo basso che lo ha contraddistinto negli ultimi anni, Fiorani si sottrae a qualsiasi commento. Ma qualche battuta con gli amici se l’è concessa. E sul punto gli amici dell’ex banchiere sono caustici: «Per bloccare Bpl-Antonveneta si fece di tutto, oggi vediamo che succedono cose che non stanno né in cielo né in terra e nemmeno su altri pianeti». 

Ma è davvero così? Le due operazioni hanno in comune il fatto di essere fortemente controverse e poco trasparenti, al di fuori o pericolosamente in bilico sul filo del regole, e di avere attirato l’attenzione della Procura di Milano. Ma mentre lo scandalo Bancopoli sconquassò gli equilibri di potere, facendo emergere subito un sottobosco di rapporti e comportamenti chiaramente illeciti, i contorni delle vicende odierne sono più sfumati. Da un lato, è vero, ci sono le responsabilità dei Ligresti e degli altri amministratori di tutta la filiera Premafin-Fondiaria Sai fino allo scoppio della crisi, dall’altro le modalità del salvataggio. 

È vero anche che mentre la battaglia per il controllo di Antonveneta, come pure quella di Bnl, fece guadagnare soldi ai piccoli azionisti della banca padovana, il cosiddetto salvataggio di Fondiaria Sai li sta facendo perdere, anche al di là dei buchi patrimoniali della compagnia gestita dai Ligresti fino a poco tempo fa. A guadagnarci, qui, sono le banche creditrici dell’azionista di maggioranza (la holding Premafin), che restano immuni da perdite e anzi si vedono migliorare la solvibilità dei propri crediti, e il vertice di Unipol che prende il controllo di una compagnia rivale, senza lanciare un’Opa.

Sistema di potere e mercato. Nel 2005, il “salotto buono”, il mondo finanziario e di potere che ruotava attorno ai patti di sindacato di Mediobanca e del gruppo Rcs, si appellò alla logica di mercato, al rispetto delle regole, e si schierò compatto contro Fiorani e soci, non esitando anche a osteggiare un governatore fin lì ossequiato da tutti. Ironia della sorte, oggi è il salotto buono, o per lo meno, i suoi esponenti e banchieri di prima fila a essere finiti nella bufera. 

Il ruolo della magistratura. Nel 2005 il ruolo della Procura di Milano fu decisivo nel determinare l’esito delle battaglie, riuscendo di fatto a legare le mani a Bpl-Bpi e ai suoi alleati, i cui pacchetti di controllo di Antonveneta vennero sequestrato, mentre oggi gli inquirenti sono piuttosto cauti a intervenire sull’operazione. Forse perché non si è ancora trovata una inequivocabile “pistola fumante”. La scoperta del presunto accordo segreto Ligresti-Nagel finora non è stata ritenuta sufficiente per fermare le operazioni di aggregazione fra le due compagnie. Le cose potrebbero cambiare se fosse ritenuta provata la natura di accordo parasociale del papello firmato da Nagel. In questo caso, il voto con cui i Ligresti hanno dato l’ok all’aumento di capitale di Premafin riservato a Unipol sarebbe stato espresso illegittimamente. E quindi la delibera sarebbe impugnabile. A meno di lanciare un’Opa su Premafin, che però riaprirebbe la questione dell’esenzione degli obblighi sulle controllate FonSai e Milano. 

Il garante istituzionale dell’operazione Bpl-Antonveneta era il governatore Fazio, su cui Fiorani contava per il via libera per l’Opas su Antonveneta. Memorabile la conversazione fra i due nella notte del 12 luglio 2005:  «Vabbene, ho messo la firma», disse il governatore, in una telefonata intercettata, «Tonino, io sono commosso, io ti ringrazio… ti ringrazio… ho la pelle d’’oca… ti darei un bacio sulla fronte ma non posso farlo…», rispose il banchiere. In questa estate, invece, non sono ancora emerse intercettazioni giudiziarie, quanto meno fino a oggi. Le cronache devono accontentarsi della registrazione realizzata da Jonella Ligresti di una conversazione con l’avvocato Cristina Rossello, segretaria del patto di Mediobanca e depositaria del “papello” segreto, su mandato di Salvatore Ligresti e Nagel. 

Nel caso di Unipol-FonSai la sponda decisiva, quanto e forse più dell’Isvap, è stata quella della Consob. O meglio del suo presidente Giuseppe Vegas. Stavolta, non per avere un’ok all’Opa ma per ottenerne l’esenzione. Resta ancora da chiarire perché il presidente dell’authority di vigilanza sulla Borsa incontrò Nagel, gli altri consulenti e i vertici di Unipol, dando indicazioni su come strutturare l’operazione. Una «mediazione irrituale» e allarmante, subito censurata da Michele Pezzinga, commissario dell’authority di Borsa: «Non mi pare opportuno indossare i panni che normalmente vestono i consulenti di gruppi privati suggerendo una riformulazione dell’operazione che al momento nessuno sa se possa incontrare il via libera del collegio». 

Che cosa è stato detto ed eventualmente promesso in quell’incontro? Peraltro, è noto che il via libera della Consob all’esenzione da Opa sia arrivato a maggioranza. Ma è presto per tirare conclusioni al riguardo: per ora nessuno sa dire se le indagini della Procura di Milano tireranno in ballo anche l’anomalo ruolo giocato dal presidente della Consob. Sorprende, comunque, che alla richiesta del pm Luigi Orsi circa lo stato dei conti di Unipol (e in particolare sugli investimenti in titoli strutturati), Vegas ha risposto che li avrebbe esaminati meglio a fusione avvenuta. Una risposta rivelatrice dell’atteggiamento di Vegas: l’operazione s’ha da fare, il resto si aggiusta. 

Il ruolo della politica. A marcare per ora, almeno ufficialmente, la differenza è il ruolo della politica. A differenza che nel 2005, stavolta non si sentono politici far il tifo o contrastare apertamente l’operazione. Anzi, ciò che colpisce oggi è che tutti se ne siano tenuti fuori. A cominciare da quelli del Partito democratico, la cui ala ex Ds è quella più vicina al mondo Coop, che controlla Unipol. Ed è anche quella che nel 2005 finì nella bufera per l’interessamento alla scalata su Bnl (l’«abbiamo una banca» di Piero Fassino). In silenzio sono rimasti anche i principali esponenti del centrodestra. 

E che dire del confronto fra i due banchieri? Professionalmente parlando, la distanza è enorme. La carriera di Nagel è tutta interna a quello che una volta era il “salotto buono’’ della finanza italiana: entrato in Mediobanca da neolaureato all’Università Bocconi, ha percorso tutti i gradini della carriera fino a ricoprire il ruolo di direttore generale e amministratore delegato di Piazzetta Cuccia. Decisamente da outsider, invece, il percorso professionale di Fiorani, che dopo la laurea in scienze politiche, ha mosso i suoi primi passi in quella che allora era una piccola banca di una provincia agricola. Arrivato al vertice della Popolare di Lodi, il banchiere di Codogno capisce che ha bisogno di appoggi e relazioni importanti per farsi largo e portare il gruppo nella top ten del sistema bancario italiano. Ecco allora che Fiorani si muove con quello che trova: un aiuto alla Lega Nord, per la banca leghista finita male, e diversi “fioretti” per mettersi in buona luce con Fazio (dalle opere pie all’acquisizione di piccole banche messe mal partito) e con il mondo ecclesiastico, e poi i rapporti con la finanza laica bresciana capitanata da Chicco Gnutti. 

Dal 2003 in avanti Fiorani è stato uno dei banchieri di punta del sistema bancario. Il che non gli impedisce di mettere a segno una serie di colpi che, a lui e ai suoi alleati, varranno l’etichetta di “capitalista di rapina”. Ecco allora le mosse azzardate sui bilanci della banca (verrà condannato per falso sui rendiconti della Bpl del 2003 e del 2004), come pure le incursioni sui conti correnti dei clienti, con prelievo indebito di somme a titolo di “recupero spese”. E poi le modalità della scalata clandestina ad Antonveneta, il cui controllo era conteso all’olandese Abn Amro, tramite il rastrellamento di titoli per interposta persona e il patto occulto con gli altri “furbetti” portati alla luce dalle indagini della Procura di Milano e della Consob.

Reati gravi indubbiamente, molto gravi, ed errori forse troppo grossolani per un banchiere del salotto buono, che oggi, invece, è solo indagato per ostacolo alle attività delle autorità di vigilanza, e che ritiene di riuscire a spiegare tutto e uscirne pulito. Nagel, tuttavia, non è stato immune da passi falsi. Come la strutturazione dell’operazione di salvataggio, perseguita con forza a dispetto della distruzione di valore (oggi FonSai vale meno dei soldi entrati in cassa con l’aumento di capitale) e dei danni gli azionisti di minoranza. E come la firma «per presa di conoscenza (v. comunicato)» sul papello con i Ligresti: non una buona uscita per la famiglia siciliana, si è difeso Nagel, «ma il corrispettivo della quota Premafin che Ligresti doveva cedere a Unipol…». Esattamente, ciò che invaliderebbe le condizioni dell’esenzione dagli obblighi di Opa. Se si applicasse il “protocollo 2005” sarebbe la pietra tombale sull’operazione. Ma oggi siamo nel 2012, e quella di Unipol-FonSai, tutto sommato, è un’altra storia, anche se per scrivere la parola fine ci vorrà del tempo.

Twitter: @lorenzodilena