Mi consentoIo, Paolo Nespoli, vi racconto la vita normale di un astronauta

Io, Paolo Nespoli, vi racconto la vita normale di un astronauta

Rimini. Quando ti raccontano del Meeting di Rimini, l’appuntamento annuale di Comunione e liberazione, ti raccontano sempre dei politici. Da Andreotti a Formigoni, da Bersani ai governanti che quest’anno la fanno da padroni: Mario Monti, Corrado Passera e domani Elsa Fornero.



Arrivi qui, però, e scopri anche altro. Mentre i giornalisti attendono con ansia il dibattito su “Lombardia: discussione su presente e futuro” per la presenza del discusso Formigoni e di Oscar Giannino, nell’auditorium c’è un appuntamento con Paolo Nespoli, di professione astronauta, l’uomo che ha portato la bandiera italiana nello spazio. 



La sala è gremita, persino troppo (alcuni parlando di 10mila , altri di 13mila, ma è un dettaglio).In tanti rimangono in piedi. Poco importa. Nespoli prende tutti per mano e li accompagna nel viaggio della sua vita. “Un uomo normale” sarebbe il titolo della sua biografia. Batte molto sul tasto della normalità, Nespoli. «Ero un bambino come tanti, cresciuto a Nord di Milano. Molto vivace, mi sbucciavo sempre le ginocchia, facevo dannare mia madre. E avevo un sogno: fare l’astronauta. Ci pensavo da quando li vidi saltellare sulla luna». Il suo primo volo, racconta, fu sotto l’esercito. Si gettò col paracadute.

«A 26 anni – prosegue Nespoli – mi trovai a un bivio. Mi posero la fatidica domanda: ma tu che cosa vuoi fare da grande? L’astronauta, pensai. Non parlavo inglese, non ero laureato, avevo un fisico normale. E me ne andai negli Stati Uniti». Dove fece di necessità virtù. Caratteristica – questa – che Nespoli sottolinea spesso, ritenendola fondamentale per l’uomo in generale e per l’astronauta in particolare. Non parlava inglese ma in quattro anni si è laureato in ingegneria aerospaziale. «La strada era ancora lunga. C’è voluto molto, ci sono volute molte prove prima di essere chiamato come “apprendista” astronauta a Houston. Eravamo trentuno nella classe, 25 americani, due gli italiani. Due anni di addestramento e poi sei assegnato a una missione».

Ma nella vita non sempre, anzi quasi mai, il percorso è lineare. Nel2003 c’è l’incidente dello Shuttle e tutto viene rallentato. «Ho dovuto attendere quasi dieci anni per ottenere la mia prima missione». Divertente e istruttivo il racconto di amici e familiari al primo lancio, intenti a cantare “O mia bella madunnina” e poi “Volare” per celebrare Paolo.

Occorrono otto minuti e mezzo per entrare in orbita. «Seicento chilometri in otto minuti e mezzo – dice – chissà quanto ce lo farebbero pagare un viaggio Roma-Milano in otto minuti e mezzo». Racconta senza enfasi la vita nello spazio. «Si lavora, si lavora tanto. E spesso ti ritrovi a dover fronteggiare problemi che non avevi preventivato, come la rottura di un pannello solare. Una situazione tipo Apollo 13 che abbiamo risolto grazie all’intuizione della base di Houston. Abbiamo trascorso due giorni a costruire due grandi lacci per evitare la rottura completa della struttura. È nelle difficoltà che l’uomo riesce a realizzare le imprese più incredibili».

Nespoli si diverte a sfatare un bel po’ di luoghi comuni. «Mi fanno ridere quando leggo di passeggiate nello spazio. Vorrei vedere loro con una tuta da 150 chili addosso, senza forza di gravità. Ci muoviamo come le scimmie, con le mani, altroché».

Rientrato alla base, Nespoli viene assegnato a una missione di lunga durata. Sei mesi nello spazio. Stavolta, però, non a bordo di uno shuttle, bensì della navicella russa Soyuz. «Appena vedi la navicella russa, pensi subito che l’abbiano assemblata in garage, che sia opera di un fai da te. Altro che Shuttle. Sono proprio le navicelle dei vecchi film di fantascienza, con le manopole di bachelite rosse. Due anni di addestramento, nel corso dei quali ho imparato il russo, e poi si parte. Non prima di aver portato un fascio di fiori sulla tomba di Gagarin sulla Piazza Rossa. Dopodiché si va in Kazakistan, dove c’è la piattaforma da cui partì cinquant’anni fa proprio Gagarin. Nulla è cambiato. Ma i russi quando stabiliscono un orario, è quello. E si parte. In America non è così, la partenza viene sempre più volte rinviata per svariati motivi». Nespoli parla con profondo rispetto dei russi, li prende in giro per il carattere e per i mezzi spartani, ma non manca di sottolineare l’efficacia dell’industria aerospaziale russa. 

Gli effetti collaterali della vita da astronauta non sono pochi. «Ti si schiaccia il cervello, così come gli occhi. In tre, una volta rientrati sulla terra, non hanno recuperato la vista. I volti sono sempre rossi perché, in assenza di gravità, i liquidi tendono a salire e affluisce più sangue al cervello e alle zone alte. Per non parlare dello scioglimento dello scheletro. Che avviene con una velocità dieci volte superiore rispetto a un malato di osteoporosi sulla terra. I nostri viaggi – prosegue – servono anche alla ricerca scientifica».

La vita nello spazio è scandita da ritmi di lavoro intensi. «Dalle 7.30 alle 19.30 terrestri. Con due ore obbligatorie da dedicare all’attività fisica. Una con cyclette o tapis-roulant e devi legarti altrimenti sbatti la testa. E poi hai un’ora per il pranzo, ma spesso lo salti per gli imprevisti di giornata. Poi puoi dormire dalle 22 alle 6, ma io ne approfittavo per scattare foto, ne ho scattate 26mila».

Andare nello spazio ti regala tante soddisfazioni, ma è un lavoro. Che comporta fatica, tenacia e abnegazione. E può capitarti, com’è successo a lui, che mentre sei in orbita ti muoia tua madre. Il racconto di Nespoli si conclude con una serie di battute sulle modalità di atterraggio della navicella Soyuz. Nespoli è orgoglioso e si vede. «I ragazzi possono capire che si può diventare famosi anche lavorando per la scienza, non solo facendo i cantanti, le veline o i calciatori. Ed è alla portata di tutti». Una vita normale , insomma. Magari con la possibilità di vedere sedici albe e sedici tramonti al giorno. Ma questo è un dettaglio.

Quanto al futuro, dice: «Chissà, forse tra dieci anni un uomo potrà andare su Marte. Serve un progetto serio e con tanti partner internazionali. Solo così funzionano. Altrimenti i politici tendono a finanziare tanti progetti di breve durata, tanto a loro interessa solo il periodo in cui sono al governo». Saluti finali, tantissimi applausi e nessuno che in un’ora e mezza si sia allontanato dalla sala.  

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