La salvezza di Tronchetti schiaccia il futuro di Pirelli

La salvezza di Tronchetti schiaccia il futuro di Pirelli

Il destino di una multinazionale che fattura 6 miliardi di euro, e figura fra i cinque leader mondiali del suo settore, può essere condizionato dalle vicende di un azionista che, di suo, ha investito poco più del 6%? Messa così, la domanda avrebbe risposta negativa pressoché ovunque. Ma se l’azionista è uno con il trackrecord di Marco Tronchetti Provera, allora la risposta diventa meno scontata.

La libertà di manovra della Pirelli per cogliere le opportunità di crescita internazionale rischia infatti di passare ancora una volta in secondo piano rispetto all’esigenza del presidente Tronchetti di trovare una quadra fra la volontà di non allentare la presa sul gruppo e la necessità di tenere in piedi la filiera societaria indebitata su cui si regge il suo potere. E questo mentre i produttori asiatici di pneumatici stanno scalando le classifiche mondiali e sono pronti a dare battaglia anche nei mercati occidentali.

Dopo cinque anni di cura seguita all’infelice conclusione dell’avventura su Telecom Italia, la leva finanziaria è ancora la croce e la delizia di Tronchetti: il controllo su Pirelli passa su Camfin, che possiede il 20,32% della Bicocca, conferito in un patto di sindacato a cui partecipano, fra gli altri, anche Fondiaria Sai, Generali, Mediobanca, Allianz e Intesa Sanpaolo. Il cosiddetto “sistema”, in breve. Camfin ha inoltre un 6% di Pirelli, fuori dal patto, ed è indebitata per 390 milioni, di cui 137 milioni arrivano a scadenza alla fine di quest’anno. Nel capitale della Camfin Tronchetti ha il 42,65% attraverso la Gpi spa, di cui ha il 57,52% tramite la società in accomandita di famiglia, la Mtp & C. In via indiretta, quindi, l’investimento di Tronchetti in Pirelli ammonta al 6,4%, che ai prezzi attuali di Borsa vale poco meno di 280 milioni.

Ma vanno anche considerati i debiti che gravano sulla partecipazione in trasparenza. Al livello più alto della catena sono 121,15 milioni di euro, secondo il bilancio 2010 della Mtp & C., l’ultimo disponibile sul Cerved. A questi si sommano, il “pro quota” dei debiti della Gpi (il 57,52% di 41 milioni in totale) e di Camfin. Fa un totale di 240 milioni. Il potere di Tronchetti su Pirelli, insomma, poggia su un investimento netto di poco superiore a 30 milioni. Praticamente, con un investimento netto di 79 centesimi controlla 100 euro. Va riconosciuto che rispetto ai tempi di Telecom Italia, quando per ogni 100 euro di capitale investiva 28 centesimi, c’è stato un miglioramento. La leva finanziaria è scesa, anche se resta ancora ad altezze siderali.

È interessante confrontare l’impegno del capitalista con lo stipendio del manager, da sempre fra i più alti a Piazza Affari. Come presidente di Pirelli nel 2011 Tronchetti ha percepito 4 milioni più un bonus triennale da 18 milioni. Il “premio”, in linea di principio giustificato dal raggiungimento degli obiettivi di crescita e redditività, è esoso: il 3% dell’utile 2011 della Pirelli. Nello stesso anno Martin Winterkorn, amministratore delegato della Volkswagen, società che fattura quasi 30 volte la Pirelli e vanta profitti 36 volte maggiori, ha incassato 6 milioni di stipendio e 11 milioni di bonus (lo 0,07% dell’utile del gruppo automobilistico). Ma si potrebbe fare anche un altro paragone illuminante circa la natura dei “capitalisti” a debito italiani. Il flusso di dividendi Pirelli teoricamente attribuibile al presidente è di 8,2 milioni: il confronto fra lo stipendio del manager e il reddito di capitale è imbarazzante per uno che viene considerato un capitalista, e dei maggiori. 

Questo è il quadro in cui si sta svolgendo il braccio di ferro fra Tronchetti e i Malacalza, soci relativamente recenti della Gpi e di Camfin. La famiglia genovese si era inserita nella catena di controllo di Pirelli fra il 2009 e il 2010, offrendo una stampella per tenere su il castello di debiti tronchettiano, durante la convalescenza post-Telecom e l’affanno per la crisi di Prelios, l’ex Pirelli Real Estate che oggi la Borsa valuta complessivamente fra 60 e 70 milioni ed è partecipata al 14% da Camfin.

L’armonia fra Tronchetti e i suoi nuovi alleati si è però incrinata di recente, causa diversità di vedute sul rifinanziamento della quota di debito Camfin che scade a fine anno. Il primo vuole rinnovare il debito, tramite l’emissione di un prestito obbligazionario convertibile nel 6% di azioni Pirelli (l’entità della quota non sindacata), gli altri propendono invece per un’immissione di capitali per abbattere il debito, che evidentemente Tronchetti non potrebbe seguire. 

Complice la fuoriuscita di un corposo dossier di documenti ufficiali, il dibattito sulla stampa si è incentrato sulla convenienza relativa delle due opzioni per gli azionisti Camfin, due terzi dei quali sono poi Tronchetti e i suoi alleati. Le banche del sistema sembrano appoggiare Tronchetti e si mostrano incredibilmente disinteressate alla possibilità di una riduzione della leva finanziaria tramite un aumento di capitale, rinviando al futuro la soluzione della questione debito. Ma questo non è una novità per un sistema che è stato capace di sostenere e tollerare ben altre anomalie finanziarie. Eppure varrebbe la pena di chiedersi come la scelta di rifinanziamento della Camfin, che rimane sostanzialmente una scatola con una rilevante partecipazione in Pirelli e molto debito (un po’ come la Premafin per FonSai), impatterà sulla libertà di manovra della Bicocca.

Il vincolo sulla quota fuori patto del 6% di Pirelli a servizio dell’eventuale prestito convertibile Camfin, infatti, da un lato renderà un po’ meno sicura la presa di Tronchetti su Pirelli, dall’altro, prevedibilmente, spingerà l’uomo che dieci anni fa veniva salutato come nuovo “principe del capitalismo italiano” a restringere il campo delle scelte future della Bicocca. Per sostenere la filiera del controllo servirà un flusso costante di dividendi e per non metterla a rischio il management della Pirelli, che dopo l’uscita del direttore generale Gori risponde unicamente a Tronchetti, sarà costretto a scartare le opportunità di acquisizioni o di alleanze societarie che potrebbero comportare diluizione del controllo. E tutto questo in un lasso di tempo (3-5 anni) in cui si giocheranno partite importanti nel riassetto mondiale del settore degli pneumatici.

Mentre nell’ultimo anno ben due produttori asiatici, Giti Tire e Hangzhou Zhongce (Westlake), sono entrati nella top ten mondiale, e mentre diventa sempre più chiaro che l’introduzione di un’etichetta europea sulle gomme per scoraggiare le importazioni del Far East, si sta rivelando una misura protezionistica poco efficace, la preoccupazione di Tronchetti e del “sistema” che lo difende è tenere in piedi l’indebitata filiera di controllo che incombe sulla Pirelli.

Twitter: @lorenzodilena

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