“Noi sessantenni siamo la vera generazione perduta”

“Noi sessantenni siamo la vera generazione perduta”

Già il presidente del consiglio Mario Monti ha rimpianto la “generazione perduta”, quella dei trenta-quarantenni ridotti a comprimari e sicuramente poco protagonisti della società e di fatto esclusi dalla classe dirigente del Paese.

Probabilmente ci hanno anche messo del loro per ritrovarsi subalterni e insignificanti. Tuttavia, anche chi più avrebbe voglia di prendersi in mano il proprio destino, non solo sotto il profilo della affermazione individuale ma soprattutto della responsabilità collettiva, si riscopre emarginato e ininfluente per il peso quasi esclusivo, un vero e proprio “tappo sociale”, della generazione degli attuali sessantenni, quelli che in varia misura e sotto versanti differenti sono stati “segnati” per sempre dall’aura magica del mitico ’68.

Quel sigillo collettivo ha costituito e costituisce un elemento identificativo che non è solo legato alle classi di età, quanto piuttosto a quella stagione che ha imposto allora l’idea che “tutto è politica”. E che l’economia, la società, la cultura, perfino il costume erano intrisi comunque di “politica” e ogni azione era alla politica che veniva indirizzata e comunque da questa condizionata.

Quella “ventata rivoluzionaria” che riguardò l’intero pianeta ebbe però esiti molto differenti: mentre ad esempio negli Stati Uniti comportò una radicale trasformazione della struttura e della gerarchia economica e aziendale, in Europa e soprattutto in Italia si ridusse alla riedizione di un marxismo imparaticcio e immaginario. Mentre là infatti quei giovani si misero a “impiantare il futuro” (e Silicon Valley insegna) qui si scelse di “reinventare il passato”. E con lo sguardo rivolto all’indietro diventò fatale il piano inclinato che portava alla violenza, prima verbale, poi fisica e quindi armata.

La inutile e sanguinosa vicenda del terrorismo rosso lasciò il Paese imbalsamato nei suoi rapporti di potere, nella sua struttura sociale, carica del peso decisivo delle corporazioni e di una burocrazia sempre più pervasiva e autoreferenziale.

Quando, all’inizio degli anni Novanta, si aprì il periodo tumultuoso e opaco che, in seguito alla caduta del Muro, comportò la fine della Prima Repubblica, la “Politica” che pure doveva interpretare l’intera società, mostrò drammaticamente i suoi nuovi limiti. E appunto quella generazione già super-presente nell’impegno pubblico, non seppe (o forse non volle, per ignavia o mediocre interesse) vivere fino in fondo la “fase di transizione” che non a caso dura ancora oggi. Preferì appunto acquattarsi nella transizione con spirito e prassi di casta, senza avere l’ambizione di governarla e senza trasmettere una capacità di “visione”, una scommessa generale sul futuro del Paese.

Oggi veleggiano tutti intorno ai sessant’anni, chi più chi meno. E, pur molto presenti nel sistema mediatico, appaiono apertamente al sentire comune modeste figurine su un complicato palcoscenico pubblico mentre i copioni sono scritti altrove e sono altri i veri protagonisti del potere e dei destini del Paese.

Nella crisi (finanziaria e non solo) che stiamo attraversando è ormai evidente e diffusa la drammatica “necessità di politica” e si guarda alle prossime elezioni come una svolta indispensabile e fondamentale. Eppure, con tutto il rispetto per le persone e la loro rettitudine, questi sessantenni ingrigiti appaiono francamente inadeguati. Tutti: perché Fini e Casini, Veltroni e D’Alema, Di Pietro e Bersani, Vendola e lo stesso Grillo (ultrasessantenne anche lui) non escono dal recinto dei “mestieranti della politica” e non comunicano quel “fremito dell’avvenire” che conquista la fiducia e il robusto seguito popolare, indicando la direzione di marcia e i traguardi autentici e possibili da raggiungere in questo complicato contesto internazionale della globalizzazione e nell’altrettanto complicato groviglio europeo.

Sembrerà un paradosso: ma finora tutta la vicenda della Seconda Repubblica che giunge alla conclusione è stata segnata dai “più vecchi”. Da Prodi a Berlusconi, allo stesso Bossi, al sempreverde Pannella fino al presidente Napolitano, tutti avevano a loro modo espresso, nel bene e nel male, una capacità di “missione politica” ben più forte e significativa dello sbiadito panorama degli attuali sessantenni. E non è un caso che perfino tra i “tecnici” emerga l’ormai settantenne Mario Monti, che negli ultimissimi atti sta segnalando una progressiva vocazione sempre più politica.

D’altronde, mai forse come oggi, la politica (intesa come arte nobile che “rende possibile ciò che è necessario”) è tremendamente indispensabile. E forse la generazione accampata in Parlamento da otto o nove legislature ha ormai ben poco da dire: se non si fa avanti un nuova e più fresca rappresentanza con il coraggio (e magari l’incoscienza) di “far saltare il tappo” delle segreterie e degli apparati, sarà difficile evitare il declino.
 

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