Lo so, dovrei postare questo appunto fra i commenti all’articolo di De Masi. Ma non amo i commenti lunghi.
È che l’intervista a De Masi è interessante perché pone alcune questioni reali. La questione della produttività merita di essere ripensata. Siamo entrati, anche noi italiani, in quella economia della conoscenza che a lungo abbiamo annunciato senza necessariamente attrezzarci con categorie logiche all’altezza. Se pensiamo di risolvere il problema degli uffici coi tornelli, vuol dire che non abbiamo ancora capito la sfida che ci attende. De Masi suona la sveglia e questo va a suo merito.
Su un passaggio, invece, è più difficile seguire il ragionamento. De Masi – semplifico al massimo – ha in mente un’economia dantesca, composta da gironi separati e indipendenti. In un girone ci sono quelli che fanno industria, quelli che lavorano con le mani, gli operai delle fabbriche. Oltre a questo girone un po’ infernale, nella volta celeste, troviamo il girone dell’economia dell’immateriale dove la materia prima e l’oggetto degli scambi è principalmente l’informazione (di ogni tipo, scientifica, tecnica, artistica e via dicendo). In mezzo il purgatorio degli impiegati di banca…
Senonché questa rappresentazione dell’economia presenta più di un problema per chi vuole descrivere l’Italia di oggi: nel nostro paese la produzione industriale di cui parla De Masi se ne è andata (salvo eccezioni) in paesi dove il costo del lavoro è minore. Le idee ci sono, ma il loro mercato non è poi così florido. Gli italiani, invece, sono diventati molto abili a vendere creatività e intelligenza incastrate in manufatti interessanti. Vendiamo macchine personalizzate, mobili di design, occhiali sofisticati, abiti su misura, vini originali.
La benzina di questa economia è l’ozio creativo? Non proprio. Perché una buona idea si incastri in un buon prodotto (o, viceversa, perché un buon prodotto incorpori un’intuizione intelligente) servono prove ed errori, tempi lunghi, olio di gomito. Soprattutto serve che chi pensa parli con chi fa e viceversa. L’intellettuale è costretto a vivere un po’ meno nel suo empireo e a sporcarsi le mani con i problemi della produzione; per contro agli artigiani delle nostre imprese spetta il compito di spiegare, capire e riflettere. Insomma, un mondo di commistioni, diverso da quei gironi concentrici di cui sopra.
E qui veniamo ai nuovi luoghi del lavoro, su cui De Masi si sofferma. È vero che l’ufficio, nell’accezione fantozziana del termine, serve a poco. Questo non significa che lavorare insieme non abbia più senso. Se dobbiamo immaginare, sviluppare e produrre oggetti che richiedono la nostra intelligenza, la condivisione di uno spazio comune conta, eccome. Luoghi di sperimentazione, laboratori, botteghe: chiamiamo questi nuovi spazi del lavoro un po’ come vogliamo. Il punto è che per produrre oggetti che abbiano un senso dobbiamo incontrarci e lavorare insieme. Se tutto fosse risolvibile con una telefonata dalla spiaggia sarebbe troppo facile. È per questo, direi, che continuiamo a parlare di “imprese”.
*Professore associato di Economia e Gestione delle Imprese
presso la Facoltà di Economia, Università Ca’ Foscari di Venezia
L’intervista a Domenico de Masi: