Scienza, ma la ricerca privata fa un danno alla verità?

Scienza, ma la ricerca privata fa un danno alla verità?

«Per quanto ancora potremmo tollerare il comportamento dei ricercatori che come una farfalla si spostano da un fiore all’altro prima ancora che il primo sia stato completamente esplorato?Sfortunatamente questo è possibile in un mondo dove la ricerca clinica è dominata dagli interessi commerciali e i ricercatori hanno dimenticato che il loro scopo principale è collaborare per il bene dei pazienti e non competere fra di loro per il successo». Così scriveva Alessandro Liberati, medico e ricercatore italiano, sul British Medical Journal (Bmj) nel 2004, già consapevole della grave malattia che lo aveva colpito, un mieloma. Cavallo di battaglia di Liberati era, il libero accesso, per chiunque ne avesse bisogno, ricercatore o paziente, ai dati scientifici e la trasparenza di ogni studio condotto, che aldilà del risultato e degli interessi commerciali che vi erano dietro doveva essere reso pubblico. «Che senso ha prendere una decisione sulla propria salute, sapendo che le informazioni, i dati scientifici, esistono da qualche parte ma non sono accessibili?»

Per i farmaci antitumorali, come in ogni settore della ricerca farmacologica, indugiare sulla pubblicazione dei risultati a volte è la prassi. Perché i risultati attesi non sono eccitanti come si sperava, e la stessa ditta che sponsorizza la ricerca preferisce non divulgarli. O perché nel frattempo è sorto qualche nuovo farmaco più costoso e vantaggioso per l’azienda, che preferisce puntare su di esso, surclassando i precedenti. Ma che fine fanno i dati negativi e quelli a metà? Finiscono in nel dimenticatoio e stanno lì anni, inutilizzati, arrecando un grave danno per la società. Perché un malato ha il diritto di sapere cos’è, e che effetto ha il trattamento che gli stanno somministrando, se già si sa. E poi perché la scienza sin dai tempi di Galileo si basa sulla comunicazione dei risultati, e dei metodi utilizzati per ottenerli, e non si può chiamare tale senza. Qualsiasi studio deve essere reso pubblico alla comunità scientifica, che può replicarlo, discuterlo e usarlo come base per gli studi successivi. Ogni studio scientifico è un “mattoncino” e uno dietro l’altro costituiscono la letteratura scientifica sul quale si basa il lavoro degli scienziati. Se i dati vengono mantenuti segreti tutto il mondo scientifico perde un pezzo di conoscenza importante, sul quale basare i propri studi futuri e viene meno l’interesse della collettività.

«Tutta la ricerca non pubblicata, almeno il 50% del totale, anche se ben condotta, deve essere considerata al pari di una frode scientifica, di un alterazione dei dati» scrive Giovanni Peronato riguardo il convegno sulla frode nella ricerca medica che si è svolto a Londra il 12 gennaio 2012, in collaborazione con il Cope (Commmittee on Publications Ethics).

Anni fa avevano fatto discutere il caso del sequenzialmente del genoma umano, che fu quasi totalmente raggiunto da due gruppi di ricerca. Uno l’International Human Genome Sequencing Consortium, una coalizione di ricercatori e istituti finanziati con fondi pubblici e diretta da Francis Collins, sottomise l’intero lavoro (come è prassi consueta), alla rivista scientifica Nature rendendo pubblico l’intero lavoro. L’altro invece, la Celera Genomics Corporation con a capo l’imprenditore-scienziato Craig Venter mandò il lavoro alla rivista scientifica Science, che lo pubblicò con la clausola richiesta dalla compagnia privata, di non rendere pubblico parte del lavoro, e precisamente i metodi, che erano accessibili solo dal sito della Celera a determinate condizioni. La cosiddetta disclosure. Il fatto scatenò subito l’ira di molti ricercatori, perché era impensabile accettare un lavoro e sottoporlo a peer-review (revisione da parte di altri scienziati, che devono verificare e accettare il lavoro) senza essere a conoscenza dei metodi utilizzati per il lavoro, né essere in grado di riprodurli per verificarne la validità.

Il problema della pubblicazione parziale o totale dei dati apre un dibattito che mostra come siano due in realtà i fattori indissolubilmente legati fra loro, che muovono gli interessi dei ricercatori: soldi e prestigio. Nel caso della Celera infatti, ciò che lasciò più interdetta la comunità scientifica era stato il voler ottenere gli oneri economici e allo stesso tempo il prestigio di vedere pubblicato il proprio lavoro su una rivista d’importanza internazionale come Science. Di conseguenza molti membri del Progetto Genoma pubblico e diversi altri scienziati indipendenti organizzarono un movimento contrario a banche dati separate e private, con accesso limitato, scrivendo una lettera aperta alla rivista Science chiedendogli di non accettare la pubblicazione del lavoro con queste limitazioni, per non creare un precedente.

I finanziamenti privati sono necessari alla ricerca, questo però sottopone gli scienziati allo stress degli sponsor che premono per avere risultati concreti e in linea alle loro aspettative e sottopone la scienza a una riduzione della quantità di informazioni disponibili e quindi anche della qualità della ricerca per via della segretezza che spesso comporta la ricerca con capitale privato. È quasi normale allora immaginare che i dati vengano spesso ritoccati o “cucinanti” come si dice in gergo, per pubblicare il prima possibile e battere sul tempo i colleghi o per far contente le industrie farmaceutiche. Avviene anche nell ricerca pubblica. E alcune ricerche lo confermano: una piccola percentuale di ricercatori falsifica i dati, altri li aggiustano appena e una buona parte e consapevole che i colleghi compiono queste operazioni. Forse una maggior trasparenza dei dati, a partire da quelli grezzi, fino alla pubblicazione dei risultati può aiutare i ricercatori, che si trovano intrappolati in questo sistema.

Eppur qualcosa si muove. Come riporta Linkiesta, in Inghilterra il Reserch Council anglosassone, con un comunicato stampa dello scorso 16 giugno, stabilisce che tutto ciò che viene prodotto dai laboratori finanzianti con i soldi pubblici deve essere reso disponibile gratuitamente sul web, a libero accesso di chiunque voglia consultare i dati. Sulla scia del National Institutes of Health americani, che già da tempo prevedono l’accesso gratuito al lavoro a una anno di distanza dalla pubblicazione sulla rivista scelta dal gruppo di ricerca.

Che si stia finalmente avvicinando il tempo dell’open access? Scienza e web 2.0 sono strettamente connessi, perché il mondo scientifico che da sempre si basa sulla comunicazione, oggi ha a disposizione una miriade di strumenti che il mondo digitale gli fornisce e che incrementano il dialogo, non solo tra gli scienziati ma anche fra gli utenti del web. «Negli ultimi anni sono esplose forme di pubblicazione dei dati scientifici che sfruttano le nuove tecnologie informatiche per mettere a disposizione di chiunque, in modo rapido, comodo e gratuito, i risultati delle ricerche» scrive Alessandro Delfanti in un editoriale su Jcom «Le riviste scientifiche e gli archivi open access sono indispensabili per la scienza collaborativa on line, e i dati che contengono costituiscono il materiale grezzo sul quale si fonda quella che alcuni chiamano “scienza 2.0”».

L’uso del web con tutti i suoi strumenti, come pure podcat e blog, permettono finalmente di avvicinarci a quella che viene definita una “scienza aperta” in cui chiunque ha il libero accesso ai dati e alla conoscenza, e può contribuire alla produzione del sapere scientifico. Al contrario di quella “ chiusa” che invece limita l’accesso solo a pochi eletti e proprio per questo può a volte essere colpevole di frodi o poca trasparenza dei dati. Le riviste open access del gruppo Public Library of Science, con PlosOne sono già un primo esempio di scienza pubblica e indipendente in cui è la stessa comunità scientifica ad eseguire la revisione dei lavori scientifici con una sorta di “open peer review”, dove «gli scienziati possono commentare, correggere e discutere il lavoro dei colleghi, dando vita a un processo di rielaborazione continua degli articoli pubblicati».
 

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