La più arrabbiata è Maria, 38 anni, segretaria. Viene da Somma Vesuviana e, oramai da un mese, fa tardi ogni giorno al lavoro per colpa dei treni che non ci sono. Chiede disperatamente alla biglietteria un attestato che dimostri lo stato di agitazione dei macchinisti: “Il mio capo non mi crede più, vuole licenziarmi”. Sono le 9,30 del mattino e tutto intorno è il caos. Tabelloni spenti. Neppure l’indicazione di un treno. Un viavai di gente affannata che guarda l’orologio. Persone di tutte le età che passeggiano nervosamente sulle banchine, fanno su e giù per le scale per chiedere ai pochi addetti presenti se si sa quando passerà il prossimo treno, che per loro rappresenta l’unica speranza per andare al lavoro, a scuola, all’Università, a casa.
È questo ciò che accade, da un mese a questa parte, nella Circumvesuviana di Napoli, la rete ferroviaria che attraversa i comuni vesuviani raggiungendo la costiera sorrentina, la provincia di Salerno e di Avellino e tutto l’hinterland partenopeo. Il personale in servizio è impegnato in uno sciopero selvaggio contro le decisioni di un’azienda già in serie difficoltà finanziarie, in una miscela esplosiva che danneggia altre centinaia di lavoratori che quei treni li prendono per necessità. Da un mese i macchinisti e i capistazione si rifiutano di salire su treni che le officine consegnano come funzionanti ma che loro considerano non sicuri.
Il risultato è: treni fermi, passeggeri a terra e una città quasi immobile. Napoli non cammina più, rischia di rimanere completamente isolata dalla provincia. Il caos dei trasporti è infatti generalizzato e riguarda, oltre alla Circumvesuviana, la Cumana, l’EAV bus e la metropolitana di Napoli Est.
Eppure la Circumvesuviana non è solo un trenino di provincia. Quei vagoni rossi portano a Pompei, uno dei siti archeologici più importanti al mondo, e a Sorrento, la patria dei limoni tanto cara a Caruso. Quest’azienda così importante ha accumulato, negli ultimi anni, più di 300 milioni di debiti. Colpa, secondo i sindacati, di sperperi, cattive gestioni, consulenze d’oro e stipendi faraonici.
Di proprietà dell’Ente Autonomo Volturno srl, la Circumvesuviana è il principale strumento di raccordo della città con la sterminata provincia. Tre linee, una che unisce Napoli con Baiano, un’altra che arriva a Poggiomarino passando per Ercolano, il santuario di Pompei e Scafati e la terza che porta fino alla costiera sorrentina. È una delle principali realtà del trasporto pubblico locale campano: smuove oltre 41 milioni di passeggeri l’anno con il solo servizio ferroviario, ai quali vanno aggiunti gli oltre 46 mila passeggeri della funivia. Un’affluenza di 130mila passeggeri al giorno su un bacino di utenza di 2 milioni di persone. A lavorarci, 1590 dipendenti.
Fino a pochi mesi fa, la precisione e la sicurezza della Circumvesuviana erano una certezza, poi il disastro: la mancanza di materiali, gli stipendi non pagati, i dissesti finanziari derivanti da un’annosa politica di mala gestione e sperperi hanno mandato in rovina quella che un tempo era una gloriosa ferrovia. Così, i pensieri dei pendolari sono diventati l’alea, il pericolo, l’angoscia, l’ansia di ascoltare in lontananza lo sferragliare del treno, quel treno che per tanti di loro significa necessità. La speranza che quello che si sente arrivare sia dotato di almeno due carrozze, per non dover fare a pugni con altri disperati per salire a bordo.
Due sentimenti, misti all’attesa: l’incredulità di chi non è viaggiatore abituale e non riesce a spiegarsi cosa accade e la rassegnazione della maggioranza, di quelli costretti a prendere la Circumvesuviana ogni giorno per andare dalla provincia alla città e viceversa. I pochi turisti che aspettano desolati, diretti a Pompei o Sorrento, si guardano attorno spaesati, senza uno straccio di informazione, a parte un cartello in doppia lingua scritto a penna che informa che prima di obliterare il biglietto è meglio informarsi se i treni passeranno.
Ma come si è riusciti, in pochi anni, ad accumulare più di 300 milioni di debiti? “Investimenti in cemento piuttosto che in materiale rotabile perché ci si poteva arricchire di più – dice Massimo Cosentino, segretario generale del sindacato macchinisti Orsa, uno dei più attivi al tavolo delle trattative – una politica regionale che ha penalizzato una ferrovia intera”. Da qui a puntare il dito sull’intero sistema delle partecipate è un passo: “Le imprese partecipate, regionali, gestite con evidenza pubblica, sono servite solo ad aumentare i debiti delle amministrazioni locali”, conclude Cosentino.
Su questo si innesca tutto il resto. I treni che non funzionano, la mancanza di pezzi di ricambio perché le aziende che dovrebbero fornirli vantano crediti altissimi verso l’azienda, un organico fortemente ridotto, treni ormai all’osso, per cui se prima ne passava uno di sei pezzi ogni ora, adesso quel treno si è ridotto a soli tre pezzi, mentre l’affluenza è sempre la stessa e nelle ore di punta la situazione diventa insostenibile. Cosentino mette sotto accusa una politica cittadina miope, che ha penalizzato l’industria del ferro, che pure, a Napoli, ha fatto la storia dell’Italia: “Qui ci sono le aziende storicamente più antiche – spiega – e il raggiungimento dell’hinterland è molto più capillare che altrove”. Soprattutto, il sindacalista punta il dito sugli stipendi d’oro degli amministratori, che oscillano tra i 180mila e i 90mila euro annui, mentre quelli dei dipendenti sono ridotti all’osso e dilazionati in più rate.
Su questo disastro si innesca l’ultima vertenza sindacale. Per adeguarsi agli standard di produttività nazionali, l’azienda ha aumentato i turni di lavoro di 16 minuti. Che per i viaggiatori sono una sciocchezza ma che per un macchinista o un capostazione fanno la differenza. Così, i dipendenti si rifiutano di salire sui treni, giudicandoli pericolosi, e si presentano al lavoro sui vecchi turni, bloccando spesso la circolazione dei mezzi a scapito dei viaggiatori. Questi ultimi, inferociti, rappresentano spesso un pericolo per i lavoratori: nelle scorse settimane sono stati diversi gli atti di aggressione vandalica motivati dalla rabbia, al punto da rendere necessario l’intervento della polizia. Una guerra senza frontiere e distinzioni.
La Circumvesuviana ha dovuto quindi acconsentire al suggerimento delle forze dell’ordine di lasciare aperti i varchi per i viaggiatori. In pratica, ormai nessuno più paga il biglietto, tutti portoghesi. E l’azienda, già in perdita, non incassa neanche più quel ricavo: “I varchi sono aperti perché l’utenza è particolarmente arrabbiata – racconta l’amministratore di Circumvesuviana, Gennaro Carbone – noi non giustifichiamo la scelta dei nostri controllori, ma comprendiamo che si debbano difendere da una massa di persone arrabbiate che vogliono tornare a casa e non sanno come”.
Come uscire da questa paralisi? L’azienda individua la possibile soluzione nel decreto Passera che prevede una dotazione finanziaria di 200 milioni per il salvataggio delle aziende del ferro. Ma il debito della sola Circumvesuviana ammonta a molto di più, perciò non si capisce come il decreto potrà salvare tutti. Il sindacato, dal canto suo, non intende retrocedere di un passo e accusa l’azienda di una politica ottusa, di anni di disinteresse, inedia e spese folli. “Se l’azienda non rinuncerà a questo braccio di ferro il servizio continuerà ad essere offerto in forma minima”, dichiara Cosentino.
In quella che è ormai diventata una trincea, si ha la sensazione di assistere a una guerra tra poveri, lavoratori del comparto del ferro contro lavoratori degli altri settori. “Quanto può durare la mia sopportazione? – si sfoga Cinzia, che la Circum la prende ogni giorno per andare a lavorare, insieme ad altri tre mezzi di trasporto, spostandosi da Portici al quartiere collinare della città, poco meno di 20 km – me lo chiedo ogni volta che salgo quel maledetto gradino stando attenta a che il passeggero che mi sta incollato dietro non mi spinga troppo nella calca. Me lo chiedo ogni volta che riesco a guadagnare uno spazio d’aria nel corridoio, perché anche quella è una conquista, nella mia giornata di lavoro. Me lo chiedo ogni volta che il mio corpo è compresso contro altri corpi che si toccano in un amplesso di disperazione e sudore. Questo quando i treni c’erano, perché ormai non si viaggia proprio più”.