Dialogatore, promoter, fundraiser. Dietro queste strane parole si nascondono le figure lavorative più ricercate nel settore del nonprofit. Un comparto con poche risorse, che in un momento di crisi svela enormi sacche di precariato. I soldi non ci sono, le donazioni calano, le assunzioni pure. Molti giovani “lavorano” come volontari. Cioè: gratis. O, quando va bene, riescono a collezionare qualche contratto. Breve, intermittente e spesso sottopagato.
Elena, 30 anni, è iscritta al corso di laurea specialistica in Cooperazione internazionale dell’Università di Pavia. «Laurea che mi darebbe uno sbocco lavorativo nel terzo settore», spiega. Intanto, si dà da fare. Ed è alla ricerca di un lavoro da unire allo studio. «Ma finora ho collezionato solo tanto volontariato», dice. Che significa: «Al di là dell’aspetto di beneficenza e solidarietà, tanto lavoro gratuito». Tranne per un mese, lo scorso dicembre. Quando «nel periodo natalizio, una nota associazione di cooperazione internazionale mi ha fatto un contratto di collaborazione a progetto per la raccolta fondi», racconta. In pratica: «Facevo i pacchetti regalo in una catena di profumerie. Hai la tua maglia e il tuo banchetto. Erano tutti volontari, tranne il capobanchetto, che in quel caso ero io e per questo sono stata pagata». Quanto? «480 euro in un mese per otto ore e mezzo al giorno».
Da allora, Elena ha inviato centinaia di curriculum tra onlus, organizzazioni non governative e cooperative sociali. Senza ricevere alcuna risposta. «L’ultimo», dice, «l’ho spedito stamattina per un progetto di cooperazione internazionale». Ogni tanto, certo, qualche spiraglio si apre. «Ma devi essere superspecializzata, avere già delle esperienze alle spalle», racconta, «oppure devi essere un medico che va a lavorare in situazioni di emergenza». Così, messo da parte il lavoro dei sogni, Elena ha accettato un impiego part time tra gli scatoloni dell’Ikea. Tavolini e librerie svedesi non sono proprio la sua specializzazione, ma «almeno so che a fine mese mi arriveranno dei soldi». Perché il problema, racconta, «è che nel terzo settore mancano i fondi. Spesso gli uffici delle associazioni sono posti campati per aria. E quando arrivano i soldi sembra un miraggio».
Non se la passa bene neanche Magda, 28 anni. Lei, una laurea specialistica in cooperazione l’ha già messa nel cassetto due anni fa. Ma non è bastato. Dopo due stage a 250 euro al mese in una organizzazione non governativa («collaborazioni lavorative» le chiama lei), è di nuovo punto e a capo. «Le offerte che ci sono sul mercato in questo momento sono tutte di questo tenore», dice. «Le donazioni sono molto diminuite, le famiglie italiane fanno fatica con i propri stipendi e se proprio devono donare qualcosa lo fanno alle associazioni con cui sono più fidelizzate». Ma con 250 euro al mese «non vai da nessuna parte», racconta. «Certo, hai la possibilità di fare formazione, ma non si può campare così». Anche perché la «collaborazione» prevedeva più di otto ore di lavoro al giorno – prima nell’ufficio per le adozioni a distanza poi nell’ufficio fundraising – e un’ora e mezzo di viaggio per raggiungere il posto di lavoro.
Il punto è che associazioni ed enti non-profit «cercano persone solo nei periodi in cui c’è bisogno, come nei momenti di raccolta fondi» racconta Magda, «ma anche solo per questi brevi periodi dovrebbero riconoscere il lavoro svolto con una retribuzione congrua». L’unica soluzione, dice, potrebbe essere quella di andare a lavorare all’estero come cooperante. «Ma non è proprio una scelta di vita che si prende dall’oggi al domani». Anche per lei, quindi, non resta che guardare «al mondo del profit». Ma pure qui la situazione è tutt’altro che rosea. «Una società mi ha detto che ero troppo junior e con poca esperienza», racconta, «per un’altra, invece, ero troppo senior». Intanto i colloqui si susseguono, i curriculum si stampano. La busta paga resta vuota.
«In questo settore si fa fatica a individuare figure professionali specifiche», spiega Claudio Soldà, segretario generale della Fondazione Adecco per le pari opportunità. «C’è una difficoltà di inquadramento, con contratti a progetto o partite Iva che spesso non rappresentano il rapporto di lavoro che effettivamente c’è». Da un lato sono richieste figure manageriali di responsabilità che arrivano solitamente da un percorso pregresso nell’associazione. Dall’altro, le figure più giovani ricercate sono invece quelle legate al fundraising. Nelle organizzazioni non governative, invece, «vengono chiesti soprattutto i cosiddetti dialogatori, i ragazzi addetti alla raccolta fondi che spesso si incontrano per strada. Un lavoro che ben si adatta alla flessibilità di orari dei più giovani».
Amnesty International, ad esempio, ha dedicato una sezione del suo sito alle offerte di lavoro come dialogatore. «Si tratta di un gruppo di 45-70 persone con un ricambio notevole», spiega Riccardo Noury, portavoce e direttore della comunicazione per l’Italia, «ogni mese ai corsi di formazione si vedono almeno 15 facce nuove. C’è una grossa richiesta, non solo da parte di giovani laureati in materie che hanno a che fare con i diritti umani, ma anche da parte di studenti non ancora laureati». La durata dei contratti varia da uno a tre mesi, per un turno al giorno in strada di circa tre ore e mezza. E lo stipendio, in questo caso, non è male: varia da un minimo di 500 a un massimo di 1.200 euro. Ma «la dinamica è che spesso questi contratti finiscono senza essere rinnovati», prosegue Noury, «in altri casi i ragazzi possono essere assorbiti, altri ancora invece vanno a fare lo stesso lavoro per altre associazioni». Le strade per lavorare nella organizzazione sono anche altre. Da attivista si può diventare professionista. «Come nel mio caso», racconta Noury. Oppure «ci sono passaggi dal mondo del profit al mondo del nonprofit nell’ambito del marketing o della raccolta fondi per chi cerca un lavoro più etico». Ma «la crisi complessiva colpisce anche le organizzazioni senza scopo di lucro», spiega il portavoce di Amnesty. «Le donazioni vengono percepite come qualcosa di voluttuario. E certo il nostro staff professionale negli ultimi tempi non è aumentato».
I profili più richiesti nel terzo settore, spiegano dal portale Infojobs (che nel 2011 ha inagugurato un canale dedicato al nonprofit), «sono quelli dei dialogatori e promoter in primis, cui seguono operatori socioassistenziali e assistenti familiari. I tipi di contratto proposti sono tipicamente a progetto e tempo determinato». Basta dare uno sguardo alle offerte sul sito di Infojobs: a prevalere sono le parole promoter, frontliner, dialogatore. Tutti ingaggi brevi, a cui corrispondono contratti altrettanto brevi. Tra i nuovi occupati nel settore, secondo una ricerca Nets, il 54% sarebbe rappresentato proprio da contratti atipici.
«Le dinamiche motivazionali delle persone che si avvicinano al mondo nonprofit spesso offrono quel surplus di stimolo che la retribuzione o la modalità contrattuale potrebbero non offrire», spiega Stefano Malfatti, responsabile del fundraising per la Fondazione Don Gnocchi e docente del corso di perfezionamento per manager delle organizzazioni no profit dell’Università Bicocca. «Questo elemento è comunque controbilanciato da una enorme richiesta di professionalizzazione. Sono numerosi ormai i corsi di formazione, universitari e post laurea, che fanno da contrappunto alla crescente richiesta di coinvolgimento professionalizzato nel settore. Cosa che nel medio-lungo periodo potrebbe ridurre le offerte di lavoro più precarizzanti».
In un momento in cui due famiglie su tre dichiarano che lo stipendio non basta, è chiaro che associazioni ed enti che si poggiano su 5 per mille, donazioni pubbliche o private sentano il peso della crisi. «La tendenza allo “spendere meno” impone incrementi nei costi di comunicazione e sempre piú spesso questi vengono letti come una “sottrazione” di risorse alle causa, dimenticando che le istituzioni del terzo settore vivono anche e soprattutto della conoscenza che riescono a diffondere circa la loro opera», spiega Malfatti. Il problema, dice, è che «il terzo settore somma ai problemi che la contingenza economica porta con sé una arretratezza culturale per la quale, pur sostenendo attività e problematiche di cui pochi ormai si vogliono occupare, vedi la salute, i diritti umani o la tutela artistica, tutto quello che tenta di fare lo deve compiere con il minor sforzo economico possibile, senza rendersi conto che, laddove non c’è investimento non c’è sviluppo e prospettiva di soluzione di quegli stessi problemi che stanno alla base delle loro mission».
A questo si sono aggiunti i tagli. «Gli ultimi mesi hanno portato con sé tagli ai giá esigui finanziamenti per cultura, cooperazione, assistenza sociale e sanitá, senza contare che lo Stato stesso è debitore nei confronti di istituzioni del terzo settore per centinaia di milioni di euro di arretrati per servizi erogati in sua vece», spiega Malfatti. «Si pensi che anche il 5xmille, vissuto come uno spiraglio nel buio dei finanziamenti, mantiene il suo carattere di precarietà annuale, conserva un tetto ben inferiore alla percentuale da cui prende il nome e molti di quei fondi vengono erogati parzialmente e con due anni di ritardo». Questi elementi «hanno favorito un incremento di contratti atipici nel settore. Il terzo settore non è un’isola felice e, pur non vivendo gli agi e le agevolazioni degli altri settori, ne vive comunque i disagi, in primis l’incrementata precarietà del lavoro».
Senza dimenticare il bacino del mondo della cooperazione, cherappresenta lo 0,3% dell’occupazione totale del Paese. Nel caso delle cooperative sociali di tipo B, quelle che hanno come scopo l’inserimento lavorativo di persone svantaggiate, disabili o immigrati, «le persone trovano un momento di passaggio, una sfera protetta per poi entrare nel mondo del lavoro», spiega Claudio Soldà. «Queste realtà offrono possibilità di lavoro a persone che nel mondo reale non avrebbero opportunità di inserirsi». Così, oltre 30 mila persone svantaggiate oggi hanno una occupazione grazie alle cooperative sociali. Ma anche qui le difficoltà non mancano. «Ci sono cooperative che hanno problemi a retribuire i propri soci», dice Soldà. «E spesso ci sono condizioni lavorative border line, con orari di lavoro molto pesanti e stipendi con i quali si fa fatica ad arrivare a fine mese».
Le testimonianze del progetto “Diritto al lavoro”
Ma quanto vale il terzo settore nel nostro Paese? I numeri a disposizione sono spesso confusi e datati. L’ultimo censimento Istat risale al 2001 (il censimento successivo, relativo al 2012, verrà pubblicato nel secondo semestre del 2013). Secondo questi dati, le organizzazioni nonprofit nel nostro Paese sarebbero oltre 235 mila, con 500 mila dipendenti e 3 milioni e 335 mila volontari. Rilevazioni successive parlano di 7.363 cooperative sociali (2005), 4.700 fondazioni (2005) e 21 mila organizzazioni di volontariato (2003). Nel 2011, uno studio condotto dall’Istat insieme al Cnel, ha stimato il valore economico del lavoro svolto dai volontari in 7,8 miliardi di euro, corrispondente a 702 milioni di ore l’anno. Tra gli obiettivi del prossimo censimento, c’è una novità importante: la nascita del conto satellite, raccomandato dalle Nazioni unite. Si tratta di una sezione della contabilità nazionale dedicata al nonprofit, che vedrà così valorizzato il suo impatto anche in relazione al prodotto interno lordo. Il volume di entrate stimato, secondo una ricerca del Forum del terzo settore pubblicata nel 2012, sarebbe di 67 miliardi di euro, pari al 4,3% del pil. Dato ancora più significativo se si quantifica il risparmio sociale che deriva dalle ore di lavoro messe gratuitamente a disposizione dai milioni di volontari. E, soprattutto, dal lavoro precario di migliaia giovani.