Confederations Cup, l’Italia e Cesare Prandelli

Gli azzurri al debutto vincono 2-1

1. La Confederations Cup è un trofeo vero e proprio?

Sì, e come tutti i trofei è piacevole da vincere. Mi sembra di capire che non è chiarissimo cosa ci vada a fare l’Italia in Brasile con un anno di anticipo sul prossimo Mondiale (per cui ancora non siamo qualificati, nda). Forse confondiamo ancora la Con. Cup con il Mundialito (che però è stato organizzato una volta sola nel 1980, in occasione del cinquantenario della prima Coppa Rimet). O magari è per via dei tempi in cui la Confederations si chiamava King Fahd Cup, dall’omonimo re dell’Arabia Saudita, e veniva contesa (in Arabia Saudita) da alcune squadre scelte non ho capito bene con quale criterio. Si sono giocate due edizioni in tutto della King Fahd Cup: nel 1992 ha vinto l’Argentina, campione del Sud America, mentre la Germania campione del mondo non ha partecipato; nel 1995 il Brasile che aveva vinto Usa ’94 non era presente e a vincere fu la Danimarca (in finale con l’Argentina che nel frattempo aveva vinto anche la Coppa America del ’93) che, in quanto campione d’Europa ’92, non aveva fatto parte della competizione quattro anni prima.

Qui sotto degli highlights senza commento ma con un tappeto musicale della prima finale della King Fahd Cup.

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Dal 1997 la coppa è organizzata dalla Fifa con l’intenzione, come dice il suo nome, di riunire le squadre vincitrici delle varie coppe continentali (più il paese organizzatore). Quello stesso anno però c’è stato anche il Tournoi de France e questo genera ulteriore confusione. La punizione di esterno di Roberto Carlos che ha aggirato la barriera francese di un metro abbondante è del Tournoi de France, mentre la Conf. Cup del ’97 è stata vinta dal Messico al termine di un entusiasmante 4-3 ai danni proprio di R. Carlos e co.

La Conf. Cup ha faticato a guadagnare prestigio (in teoria ancora oggi per le squadre europee e sudamericane la partecipazione è facoltativa: la Danimarca ha rinunciato nel 1997 come vincitrice dell’edizione ’95, la Francia campione del mondo ha declinato l’invito nel ’99 e la Germania lo ha fatto già due volte da quando la coppa è della Fifa: 1997 e nel 2003 – edizione in cui, durante la finale, è morto il camerounense Foé e incredibilmente si è continuato a giocare – e sempre nel 2003 ha rinunciato alla chiamata anche l’Italia che si sarebbe qualificata come seconda all’Europeo del 2000) e solo dalle ultime due edizioni è stata trovata una formula stabile.

Adesso però è chiaro di cosa si tratta: dal 2005 in poi si disputa ogni quattro anni (e non più ogni due) l’estate precedente il Mondiale nel paese che lo ospiterà. La prossima edizione si terrà in Russia nel 2017, e così via. Concettualmente è una specie di Supercoppa per Nazionali, solo con due gironi di quattro squadre, semifinale e finale. Le partite del nostro girone sono tutte interessanti: contro Messico (campione del Nord America), Giappone (campione d’Asia) e Brasile (organizzatore); e se questo non bastasse a convincervi che la Confederations Cup è un bel torneo pensate che nell’altro girone, quello di Spagna (campione del mondo), Nigeria (campione d’Africa) e Uruguay (campione del Sud America) c’è Tahiti: la più piccola nazione ad aver mai vinto un torneo confederato (Oceania).

Sì, la Confederations Cup è una vera competizione e partecipa Tahiti. Qui sotto la finale della Coppa di Oceania vinta da Tahiti contro la Nuova Caledonia (1-0), in un campo senza tribune e la gente seduta sull’erba delle colline che lo circondano.

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2. Di cosa parliamo quando parliamo di calcio italiano?

Forse la percezione generale è che l’Italia sia stata invitata perché, boh, simpatica a Blatter? Non credo proprio. Da una parte dobbiamo considerarci fortunati: partecipiamo in effetti perché siamo arrivati secondi all’ultimo Europeo e la Spagna ha vinto anche l’ultimo Mondiale; dall’altra però ce lo siamo meritato con la vittoria in semifinale contro la Germania. La mia opinione è che l’Italia di Prandelli stia facendo meglio di quanto ci dovremmo razionalmente aspettare, per questo non capisco il generale scetticismo che circonda la Nazionale in questo periodo.

Si spiega forse col declino del calcio italiano a livello di club, e la percezione di essere stati relegati ai margini dell’Europa. Facendo eccezione per l’Inter di Mourinho (2009-2010) l’ultima squadra italiana a giocare una semifinale europea è stata proprio la Fiorentina di Prandelli nel 2007-2008: in Coppa Uefa contro i Rangers di Glasgow. In Champions League è un lungo digiuno che dura dal Milan campione dell’edizione 2006-2007, spezzato appunto dallo Special One. Nelle ultime sette edizioni successive al Mondiale vinto in Germania solo due club italiani sono stati capaci di entrare tra i primi quattro d’Europa. È evidente che c’è qualcosa che non va. A livello di Nazionale, però, dopo il calo della seconda gestione di Lippi (Confederations 2009 e Mondiale 2010) ci siamo qualificati brillantemente per l’Europeo 2012 (senza mai perdere e subendo solo 2 gol in 10 partite) in cui poi siamo arrivati in finale battendo in semifinale una la favorita Germania (e il calcio tedesco che un anno dopo sarebbe diventato il nuovo modello). Faccio questo ragionamento perché per noi italiani viene sempre e comunque prima la squadra di club rispetto alla Nazionale, ma stiamo correndo il rischio di diventare veramente una periferia calcistica e la Nazionale di Prandelli potrebbe darci quelle soddisfazioni che fino a poco tempo fa gli italiani (almeno le principali tifoserie) si aspettavano dai propri club. (Ovviamente questo vale anche per l’Europeo Under 21).

Inoltre, come è spiegato nel fondamentale anche se forse un po’ datato Calcionomica di Simon Kuper e Stefan Szymanski, i risultati sportivi delle Nazionali di calcio dipendono in sostanza da tre fattori: (1) la grandezza della popolazione; (2) la ricchezza del paese; (3) l’esperienza calcistica (quantità di partite giocate nella storia della Nazionale stessa). Per una serie di ragioni (che non è il caso di specificare qui) «la regola empirica», specificano gli autori, «è che le nazioni ricche vincono più partite di quelle povere». E non c’è bisogno che aggiunga che per quanto riguarda il fattore (2) non siamo messi benissimo negli ultimi tempi. Parametri di questo tipo, però, sono stabili solo se si prendono in conto molte partite, in competizioni brevi come Mondiale o Europeo conta molto la casualità, intesa sia come fortuna (un tiro che anziché entrare in rete colpisce il palo) ma anche come le varie differenze che fanno sì che due allenatori diverso, con le stesse condizioni di partenza, non otterranno per forza di cose lo stesso risultato. Quindi, non solo una vittoria sportiva è anche una rivincita contro l’andamento dell’economia, la casualità che ha la meglio sul determinismo, ma probabilmente qualche merito ce l’ha anche Claudio Cesare Prandelli. E con questo arriviamo alla terza domanda.

Cesare Prandelli appena atterrato in Brasile (Afp)

3. Prandelli è un Grande Allenatore o solo un Grande Educatore?

«In Nazionale abbiamo trovato un ambiente depresso, sfiduciato, strozzato dai problemi contingenti», dice Prandelli nel suo libro dello scorso anno, Il calcio fa bene. Il che è normale: prima di lui venivamo dal cinismo di Lippi, dalle vittorie contro tutti e tutti, dal Mondiale alla faccia di Calciopoli, un tipo di narrazione che quando si comincia a perdere viene svuotata di senso. Così, insieme ai suoi collaboratori, Prandelli decide che la priorità è: «Far rinascere l’amore fra la gente e la maglia azzurra». Se ci sia riuscito o meno è ancora da capire, e forse non dipende interamente da lui. In ogni caso ha avuto un sapore più dolce la sconfitta in finale contro la Spagna di quanto ne avrebbe avuto se l’Italia avesse giocato fin lì il suo solito brutto calcio. Si passa per questioni come il Codice Etico e altre strettamente calcistiche. L’attenzione ai giovani che a livello dei club è ancora uno dei problemi più grandi e sopratutto l’intenzione (rivoluzionaria rispetto alla tradizione italiana) di privilegiare la costruzione del nostro gioco alla distruzione di quello dell’avversario.

Se però per giocarcela alla pari contro la Spagna abbiamo rimediato una sonora sconfitta (eticamente validissima), a volte il tentativo di costruire si trasforma in un dominio tutto sommato sterile, come ad esempio contro la Rep. Ceca. La noia sul terreno da gioco rischia di veicolare il messaggio sbagliato: che anche Prandelli in fondo si accontenti di vincere. Anche se trovo inutili le critiche piovute dopo la partita di contro la Repubblica Ceca (voglio dire: eravamo fuori casa, sapevamo che un pareggio poteva andar bene e ci trovavamo contro una buona squadra, atleticamente brillante, che doveva dare il tutto e per tutto e non abbiamo praticamente mai subìto finché siamo rimasti in undici contro undici) bisogna ammettere che non sono stati fatti sostanziali progressi da dopo l’Europeo. In undici partite abbiamo vinto cinque volte, ma contro squadre non alla nostra altezza: a parte la Danimarca abbiamo battuto Armenia, San Marino e Malta (due volte). Abbiamo pareggiato con Bulgaria e Rep. Ceca e, in amichevole, con Olanda e Brasile (andando sempre in svantaggio per primi). Poi abbiamo perso con Inghilterra e Francia e, anche se le amichevoli non sono la stessa cosa di una partita con qualcosa di importante in ballo, non è chiaro il reale valore di questa Nazionale.

Insomma, la Confederations Cup apre un periodo lungo un anno in cui Prandelli avrà la possibilità di diventare uno dei più grandi allenatori della storia del calcio italiano, proprio perché capace di unire alle buone intenzioni i risultati in campo (io personalmente mi accontenterei anche di solidificare il posto – ideale perché non corrisponde al nostro ranking – dietro la Spagna; e in questo senso mi piacerebbe se sia in Conf. Cup che con l’Under 21 riuscissimo ad arrivare a una finale con la Roja). Ma c’è già chi usa gli ultimi risultati non entusiasmanti per dubitare delle idee di Prandelli, mettere in discussione proprio il Codice Etico (alludendo a un’ipocrisia di fondo e alla disparità nei trattamenti) e sminuire l’importanza della sua discontinuità rispetto al passato.

Siccome faccio il tifo per Prandelli ecco un suo gol da giocatore contro il New York Cosmos (dove il commentatore americano lo chiama Claudio Prandelli anziché Cesare come adesso facciamo noi)

Allenamento dell’Italia: da sinistra a destra De Rossi, Pirlo, Balotelli, El Shaarawy, Abate e Montolivo (Afp)

4. L’Italia gioca bene oppure no?

Corollario della domanda precedente è il problema tattico. Da quando è in Nazionale Prandelli ha usato prima un 4-3-3 molto fluido con i tre di centrocampo a scambiarsi continuamente di ruolo, poi un 3-5-2 più di contenimento e infine il 4-4-2 a rombo che adesso sembra preferire. Il pregio di questo modulo, con quattro centrocampisti centrali, è la superiorità quasi sicura in mezzo al campo. Il difetto è che quando la palla si muove da destra a sinistra (o viceversa) il rombo è lento a spostarsi. Questo può creare problemi difensivi contro squadre che giocano bene sulle fasce (tipo il 4-1-4-1 dell’amichevole persa 0-3 con la Russia un anno fa o il 4-4-2 con la spinta dei terzini della Croazia durante l’Europeo) e in fase offensiva rischia di intasare gli spazi. E questo potrebbe essere il problema principale: l’Italia fatica con le squadre che si chiudono. Quando mancano le energie per gli inserimenti, o il pressing avversario è efficace, rischia di sembrare un sistema rigido. Dato che la nostra capacità di costruire viene prima di tutto questo dovrebbe essere il problema maggiore dell’Italia di Prandelli. 

Anche quando Prandelli sceglie un modulo diverso resta fondamentale attaccare su più linee così da avere varietà di soluzioni. Ma con il 4-3-3 il gioco si allarga e diventa difficile avere tutto: sia i tagli in profondità che le sponde con gli inserimenti. Forse per questo, anche se può sembrare una scelta di comodo o conservatrice, Prandelli preferisce (o per ora sembra preferire) il 4-4-2 a rombo, per favorire un gioco a terra basato proprio su uno-due rapidi e ravvicinati e sulla moltiplicazione delle linee di attacco. Nell’ultimo anno i gol più belli realizzati dall’Italia sono quelli più “costruiti”: quindi sì, direi che quando l’Italia riesce a esprimersi, seppur con dei limiti, gioca abbastanza bene.

Poco fa parlavo del gol di Verratti contro l’Olanda:

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Del primo gol in maglia azzurra di El Shaarawy contro la Francia:

E di quello di Montolivo (giocatore chiave sia per quel passaggio intermedio tra centrocampo e attacco che dà il tempo agli intermedi di inserirsi, sia per la sua capacità di inserirsi) contro la Danimarca:

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5. Odiate Balotelli al punto da voler vedere fallire lui e la Nazionale?

Lasciamo da parte il problema del razzismo (se possibile). Facciamo finta che Balotelli sia un giocatore di pelle chiara, bresciano da quattro generazioni, e l’antipatia che alcuni italiani mostrano nei suoi confronti sia dovuta a ragioni esclusivamente di campo o comunque a dei suoi atteggiamenti. A cose tipo il brutto tweet di Balotelli successivo al secondo cartellino giallo ricevuto contro la Rep. Ceca:

Scrivete pure quello che volete ma alla confederation cup tifate un altra nazione ve lo dico con il CUORE.(e rivedete la partita BENE TUTTA)

— Mario balotelli (@FinallyMario) 07 giugno 2013

In effetti una cosa del genere non si dice. È un ricatto. Non posso scegliere la Nazionale da tifare. Posso avere simpatia per Tahiti, ad esempio, ma non posso tifarla. Al tempo stesso però è vero che quel secondo cartellino giallo era inesistente (e il primo quanto meno severo).

Balotelli salta per stoppare la palla di petto, magari è un po’ scomposto e Gebre Selassie lo anticipa finendogli sulla parte interna del braccio. Il difensore ceco di origini etiopi accentua la caduta e l’arbitro commette un errore. Non c’è motivo di chiedersi se Balotelli fosse frustrato perché in serata no, se fosse stato provocato, se in quel momento preciso fosse nervoso: semplicemente si tratta di una valutazione errata dell’arbitro presa in base alla reputazione dello stesso Balotelli.

Adesso, se un arbitro espelle ingiustamente il giocatore migliore della mia squadra, quello che può risolvere la situazione da un momento all’altro, io dovrei arrabbiarmi. Se invece me la prendo col mio giocatore, perché è antipatico, perché in fondo penso che se lo merita, significa che preferisco veder fallire lui anche a costo della vittoria della mia squadra. Quindi, in un certo senso, sto già tifando per un’altra squadra, e tutto sommato il tweet di Balotelli non era così campato in aria.

Capisco e rispetto il fatto che il senso morale prevalga sulla partigianeria sportiva, ma nessuno che ami davvero il calcio può sperare che un ventiduenne così talentuoso fallisca (ed è un rischio reale quando il clima diventa troppo ostile: prima di andare in Inghilterra, Cantona aveva deciso di smettere di giocare a calcio a ventiquattro anni e mezzo per come veniva trattato da arbitri e pubblico francesi).

Forse potremmo semplicemente lasciarlo giocare in pace, senza che quelli a cui non piace colgano tutte le occasioni possibili per ribadire il fatto che non gli ci piace, costringendo quelli come me a difenderlo anche quando non ce ne sarebbe motivo.

.. Buon giorno.. Ieri la mia reazione non è stata giusta ,chiedo scusa.. SCUSA.. Alla mia squadra .. Devo imparare… Ancora..

— Mario balotelli (@FinallyMario) 08 giugno 2013

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