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Vaghezze calcistiche

Lo scorso 26 settembre Éric Hély si è dimesso da allenatore del Sochaux. Investito dell’incarico nel marzo 2012, durante una crisi di risultati che sarebbe potuta costare la retrocessione al Sochaux, Hély ha raggiunto la salvezza quell’anno (vincendo sette partite su dodici) e il successivo (battendo, tra gli altri, il PSG futuro campione) ma la stagione 2013/14 è cominciata con due punti in sette giornate e dopo la pesante sconfitta casalinga subita contro Guingamp (1-5) ha rinunciato al suo posto in panchina. A France Football (numero 3524, del 22 ottobre) ha raccontato i dubbi della moglie: «Sei pazzo? Ami troppo il calcio e la tua squadra. Quanti altri al posto tuo pensi che si comporterebbero così?».

Sochaux era un paese di cinquecento anime prima che arrivasse la Peugeot nel 1912, facendo  aumentare di conseguenza la popolazione (al momento il comune conta poco più di 4 mila abitanti, quasi la metà dei quali operai). Jean-Pierre Peugeot ha fondato la squadra di calcio locale e dato vita alla Coupe Peugeot, antenata del campionato francese.

Da giovane Hély ha vinto un campionato primavera (Coupe Gambardella) con il Sochaux, e  l’Europeo Under 18 con la Nazionale nel 1983. Una carriera mediocre come professionista, in cui ha cambiato spesso squadra nelle categorie inferiori, a 29 anni ha preso il patentino da allenatore mentre ancora giocava la sua ultima stagione da professionista. Dieci anni dopo è tornato a Sochaux per allenare le giovanili. 

l museo Peugeot a Sochaux

«Gli allenatori professionisti, quando fanno delle scelte, lo fanno senza affetto. Si devono lasciare i sentimenti da parte. Non conta più far migliorare i giocatori come nelle giovanili. Un allenatore professionista è raramente felice», ha detto Hély a France Football. «Sono passato da “Eric” a “Mister” come se da un giorno all’altro fossi diventato una persona diversa. Mi scocciava da morire. Ne ho persino sofferto, all’inizio, sopratutto lato famiglia, zii, cugini. Lo dico con molto affetto verso di loro. Ma mi guardavano come se fossi diventato qualcun altro. D’accordo erano contenti per me, ma mi trattavano diversamente. Non come il VIP di famiglia, ma comunque con un imbarazzo maggiore rispetto a prima, nel dirmi le cose, nel parlare. (…) A posteriori penso che la vita di un allenatore professionista non sia normale. (…) Sembra di vivere dentro una lavatrice ventiquattr’ore su ventiquattro. Non si ferma mai. E quando si ferma ne esci stremato per un bel pezzo». 

Hély è rimasto al Sochaux come osservatore:«Preferisco essere felice nell’ombra, con la mia famiglia, lavorando con i giovani».

La faccia simpatica di Eric Hèly

À la Clairfontaine è un documentario di Canal+ del 1999 sui calciatori francesi classe ’86 (e quelle vicine). Ventotto episodi su tre anni (fino al 2002), bambini di tutte le altezze e colori dotati per il calcio. In questo modo la Francia ha conosciuto Hatem Ben Arfa, di origine tunisina, fin da quando gli sono spuntati i primi baffetti. 

In un episodio famoso Ben Arfa bambino litiga con Abou Diaby bambino, ora centrocampista dell’Arsenal. Prima si vedono giocare benissimo entrambi in un’amichevole in Spagna finita 11-0,  poi si divertono sulle macchine a scontro, poi Hatem offende il padre di Abou che con le lacrime agli occhi viene chiuso fuori al balcone dai compagnucci di squadra, minacciando con linguaggio adulto da dietro le tende tirate. «Ho un carattere nervoso, non lo so, è la natura», dice Ben Arfa dopo il litigio, seduto sul letto con l’aria colpevole e furba. «Fin da piccolo a volte mi arrabbio all’improvviso. Adesso mi sono un po’ calmato ma…».

Ben Arfa al centro tra Benzema e Nasri, dopo la vittoria dell’Europeo Under 17 nel 2004

Hatem Ben Arfa ha dichiarato recentemente: «Fin da quando ero piccolo mi dicevano che ero il migliore e io ci credevo. Ci è voluto tempo e intelligenza perché capissi di essere andato fuori strada. Che mi sbagliavo». 

Passato al Newcastle dall’estate del 2010, Ben Arfa è fuori dal giro della Nazionale da un po’ di tempo ormai anche per ragioni caratteriali: «Quando Laurent Blanc mi ha sgridato per quella telefonata negli spogliatoi, invece di abbozzare ho risposto, non avrei dovuto». Didier Deschamps, suo allenatore ai tempi dell’Olympique Marsiglia, non lo ha mai convocato da quando è alla guida della Nazionale. 

Ben Arfa ha ammesso che la modestia in passato non era il suo forte e ancora adesso dice: «Vi sembrerò pazzo ma sogno ancora di vincere il Pallone d’oro. Sono sicuro di essere ancora in tempo. Tra venti o trent’anni il mio nome verrà citato insieme a quello di Platini, Zidane, Pelé o Maradona».  

Ben Arfa vs Aston Villa lo scorso 14 settembre

A maggio 2013 è stato pubblicato il pamphlet polemico “Racaille Football Club” del giornalista Daniel Riolo. “Racaille” è il modo in cui Sarkozy ha chiamato gli abitanti di periferia che hanno dato vita alle rivolte del 2005 (significa “feccia”). Riolo mescola società e calcio, gli scarsi risultati della Nazionale con lo scarso attaccamento alla maglia tricolore degli immigrati di seconda e terza generazione. Mette in discussione l’idea di “Repubblica universale” alla francese e si chiede se la Francia non sia di fatto un paese “multiculturale”, fa l’esempio di Ribery, cristiano convertito all’Islam, parlando di «integrazione al contrario». Il libro è piaciuto molto ad alcuni gruppi di destra ma Riolo dice che non può controllare i lettori del suo libro.

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Con un tempismo terribile, proprio prima dello spareggio con l’Ucrania per il Mondiale brasiliano, Telefoot manda in onda (domenica 17 ottobre) un’intervista a Patrice Evra intitolata La resa dei conti di Evra: «Volete farmi parlare? Ok adesso parlo (…) Non tagliate, non tagliate». 

Evra ha sparato a zero sui principali giornalisti e commentatori francesi (di cui ha storpiato, apposta o no, tutti i nomi) e mancato di rispetto persino a Bixente Lizarazu, terzino sinistro campione d’Europa (2000) e del Mondo (1998): «Non so cos’abbia contro di me. Io sono stato votato miglior… due volte miglior terzino sinistro del Mondo. Quattro volte miglior terzino sinistro della Premier League. Non so se lui è mai stato votato miglior terzino sinistro del mondo». 

Nato a Dakar da padre diplomatico senegalese e madre di Capo Verde, Evra fa parte di una famiglia di ventiquattro tra fratelli e sorelle. A Parigi da quando ha tre anni, Evra è tornato solo una volta in Senegal quando ne aveva dieci per farsi circoncidere: «Sinceramente non è stata una bella esperienza». 

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Evra si fa giustizia da solo

Evra ci è andato ancora più pesante con Pierre Ménès, giornalista virtuoso della polemica sportiva: «Lui spero di incontrarlo un giorno. Perché lui ha parlato della mia famiglia, ha detto: Evra sarebbe pronto a vendere sua madre per tornare in Nazionale. Lui spero di incontrarlo. Malouda lo ha già incontrato, e se fate attenzione vi accorgerete che non parla più di Malouda perché Malouda lo ha già pizzicato. Spero di pizzicarlo anch’io un giorno. Perché lui, il giorno che riuscirà a fare otto palleggi, io smetterò di giocare».

Ménès ha raccontato che Malouda ha provato ad aggredirlo, in discoteca sugli Champs Elysées, mentre stava andando a fare pipì, ma che è stato cacciato dai buttafuori prima di toccarlo. Poi, in risposta alla provocazione di Evra, il giornalista sovrappeso ha fatto non otto, ma dieci palleggi davanti alle telecamere: «Io non volevo farlo. Mi sembrava ridicolo. (…) Ma il giorno dopo su Facebook 250.000 persone mi hanno chiesto di accettare la sfida. 250.000! Un quarto di milione! Allucinante. E non solo sconosciuti, anche gente vicina, familiari, amici. (…) Alla fine l’ho dovuto fare per evitare che mi dicessero cose tipo: Te la tiri col calcio ma non sei capace neanche di fare otto palleggi».

Nonostante ciò, Evra non ha interrotto la propria carriera come aveva promesso.

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Il quarto palleggio di Pierre Ménès

A metà novembre, la Francia ha perso la partita di andata dello spareggio con l’Ucraina (2-0) trovandosi con un piede fuori dal Mondiale. Olivier Giroud, centravanti dell’Arsenal che Deschamps ha preferito a Benzema per la trasferta di Kiev, ha detto all’Equipe: «Siamo disposti a morire in campo pur di farcela. Vogliamo dimostrare al popolo francese e a noi stessi quanto siamo fieri di rappresentare la Francia (…) La fierezza di indossare quella maglia, il fatto di sapere che 64 milioni di francesi sono con noi, le nostre famiglie, le persone vicine. Vogliamo fare il meglio possibile, lasciare un segno nella Storia. È una questione di fierezza». 

Olivier Giroud è nato a Chambéry (Savoia), sul braccio destro ha tatuato un salmo delle Bibbia e sul sinistro un tribale polinesiano i cui elementi secondo lui simboleggiano Famiglia, Coraggio, Amore e Forza. Il fratello maggiore di Giroud era un giocatore promettente da giovane ma non è riuscito ad avere successo, forte della sua esperienza però ha sconsigliato a Olivier di entrare a far parte di uno dei centri di formazione per piccoli calciatori «Pensava non fossi pronto. Aveva ragione. Sono stato preselezionato da giovane per Clairefointaine, ma non ho sfruttato l’occasione: troppo buono, troppo cerebrale (…) Il calcio è una giungla!». Giroud ha studiato economia al liceo prima di diventare professionista.

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I tatuaggi di Olivier Giroud

Una settimana fa, a Saint-Denis, la Francia ha battuto 3-0 l’Ucraina nella partita di ritorno, qualificandosi meritatamente per il Brasile. Olivier Giroud è andato in panchina, giocando gli ultimi dieci minuti e sfiorando due volte il gol di testa.

Il 2-0 che ha fatto tirare un sospiro di sollievo a tutto il paese lo ha segnato Karim Benzema, stavolta titolare. Come ricorda Riolo nel suo libro, da giovane Benzema ha dichiarato di aver scelto la Francia (in cui è nato e cresciuto) solo per l’aspetto sportivo, che il suo cuore e il suo sangue restano algerini. 

Il protagonista della partita è stato Mamdou Sakho, difensore, autore di una doppietta, i suoi primi due gol in Nazionale. «Quando si indossa questa maglia non bisogna dimenticarsi tutto quello che rappresenta», ha detto a fine gara. «Questa sera si è visto uno stadio intero sostenere la squadra e la squadra dare tutto per  la maglia. Spero che sia l’inizio di qualcosa di grande. (…) È stato favoloso, abbiamo sentito fin dal riscaldamento che il popolo era con noi». Capitano del PSG a diciassette anni, finito per vari motivi dietro i vari Alex, Thiago Silva, Marquinhos, ceduto al Liverpool nell’ultima sessione di mercato. Parigino della Goutte d’or, quartiere a maggioranza africana, Sakho ha perso il padre quando aveva tredici anni: «Il calcio era diventato un obbligo. Doveva assolutamente essere il mio mestiere. (…) Ho sette fratelli e sorelle. Non volevo sprecare la possibilità di vivere della mia passione e poter aiutare la mia famiglia». Dopo poco essere arrivato in Inghilterra, Sakho ha rotto un macchinario da palestra, la notizia è stata passata come «Mamadou Sakho è così forte da rompere le macchine in palestra». Domenica ha pianto in TV.

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