È uscito da nemmeno un mese e le librerie, come si dice, già ce l’hanno di costa. Ma voi recuperatelo. Stefano Catucci ha scritto un libro bellissimo e anomalo – un’eccezione nella saggistica italiana dove praticamente non esiste la critica culturale e tra accademia e giornalismo difficilmente si percorre una terza via: Imparare dalla luna (Quodlibet, 19 €) – titolo-omaggio al modello Imparare da Las Vegas – è un saggio sull’immaginario legato alla Luna, focalizzato su quell’appendice della modernità che va dai voli interspaziali a oggi; oggi, ossia in un tempo in cui, a quanto pare, riprenderanno i viaggi lunari per ricchi flâneur galattici.
Gli umani e questa sfera bianca nel cielo: capire il rapporto che noi terrestri abbiamo avuto con il nostro satellite ci fa riconoscere il senso di una storia delle idee, dalla metafisica all’arte alla politica. Non soltanto perché la luna come metafora, simbolo, icona è stata tutto, ma perché ha significato soprattutto, ovviamente, il modo in cui ci siamo confrontati e/o rispecchiati con l’Altro da noi.
Per questo familiarità e spaesamento sono i poli di uno spettro emotivo con cui ci lasciamo accompagnare da Catucci. Uno spettro emotivo, esatto: perché, nonostante sia un libro denso intellettualmente, tassonomico dal punto di vista della ricostruzione storica, Imparare dalla luna è un testo che ci interroga e spiazza tutti. Chi di noi, del resto, non è un terrestre?
Si può capire di che libro meraviglioso si tratta partendo da quella che è una delle fotografie più celebri della storia: Earthrise, che l’astronauta William Anders scattò nella missione Apollo 8. L’immagine che tutti conosciamo è questa:
Ma. Ma l’immagine che potremmo dire originale era ruotata di 90 gradi, ossia è questa.
Capite che fa una bella differenza. Se alla prima potremmo affibbiare una didascalia cartolinesca del tipo: Saluti dalla Luna; la seconda ci ispira forzatamente un sottotesto tipo Addio alla Terra.
La semplice rotazione di 90 gradi è emblematica di una costruzione che «ha finito per vanificare il senso dell’alterità dello spazio, mancando l’occasione per scegliere una forma diversa per raccontare anzitutto dello spazio e della Luna, anziché della Terra come di un luogo del ritorno e come origine della visione del cosmo». Una terrestrizzazione dello spazio ignoto.
Su quest’ambiguità, esplorazione/conquista, negli anni degli sbarchi, scrittori, pensatori di varia razza si sono lambiccati. E per certi versi Imparare dalla luna è una specie di manuale di filosofia contemporanea. Se Heidegger di fronte alle foto della Nasa nel 1966 scriveva: «La tecnica strappa e sradica l’uomo sempre più dalla Terra», Hannah Arendt considerava l’esplorazione dello spazio un tentativo di sfuggire alla condizione umana, e Günther Anders considerava che il grande risultato dell’impresa del 1969 non è stato portare fisicamente gli uomini sulla Luna, ma proprio vedere la Terra come «un relitto nell’universo». Così le parole dell’astronauta Don Lind («Sapevo esattamente cosa avrei visto, ma non c’era preparazione teorica che non avessi fatto, ma non c’è modo per essere preparati all’impatto emotivo») non sembrano altro che l’espressione che Husserl attribuisce all’Erstmaligkeit, la “primavoltità”, quella coincidenza paradossale tra la singolarità del fatto storico e l’universalità del valore eidetico. E pare Husserl anche quello che dichiara l’altro astronauta Bill Anders di fronte alla foto passata alla storia come Blue marble, “biglia blu”:
Di fronte a quest’immagine, disse, l’umanità si sarebbe sentita una cosa sola, parte di un unico destino legato al fluttuare nello spazio di un piccolo e coloratissimo pianeta avvolto nel buio.
Ma paradossalmente la storia delle spedizioni sulla Luna non è la storia di un destino unico: quello che Catucci definisce “cosmopolitismo geoscopico” è stato negato di fatto dall’atteggiamento con cui sono state pensate e realizzate le spedizioni e dai segni che l’uomo ha lasciato sul satellite.
Al momento di metterci piede, gli astronauti si chiedono sempre che tipo di gesto fare. Ma, come sottolinea Gunther Anders, si comportano da colonialisti: eccoli piantare la bandiera a stelle e strisce, o depositare una placca di alluminio con una scritta in inglese – l’universalismo va a farsi benedire.
Ma, pure prescindendo dalle ragioni nazionaliste, Imparare dalla luna ci induce a pensare che forse quelle esplorazioni spaziali è stata (è) l’ultima chance di pensarci uomini di tipo diverso, dissennati come se fossimo dei naufraghi immaginati da Ariosto o da Verne. Tutti i modi per familiarizzare la luna, politici, sociali, o semplicemente percettivi – gli articoli di Pier Paolo Pasolini sul Tempo che descrive gli astronauti come eroi perfetti per la società dei consumi e la diretta dello sbarco come il format televisivo par excellence – hanno tradito la possibilità di un altro destino. E ora che, come pare, sulla Luna, ricominceranno le spedizioni e si costruiranno delle sorte di musei a proteggere gli oggetti e le tracce che cinquant’anni fa vennero lasciate, forse dovremmo riandare a quei momenti in cui, sorpresi dall’assenza di gravità, intabarrati dentro delle tute da orsi polari, due astronauti come John Young e Charlie Duke, gli ultimi a essere spediti nello spazio, si mettono a zompare e farsi le foto come due ragazzini. «Giocando sulla Luna, camminando, saltando, tirando palline da golf, lancando martelli e fogli d’alluminio, hanno cercato di stabilire con la Luna un rapporto più lunare, per così dire, più attento alla diversità del luogo».