Pizza ConnectionGli artigli della mafia cinese sull’Italia

Gli artigli della mafia cinese sull’Italia

L’evoluzione del fenomeno criminale negli ultimi anni è riassunto nell’ultima relazione della Direzione Nazionale Antimafia: «i gruppi criminali cinesi – rileva il Consigliere della Dna Maria Vittoria De Simone –  operanti sul territorio nazionale hanno nel tempo manifestato, proporzionalmente all’incremento della presenza dei connazionali in Italia, una particolare evoluzione che, dopo una mera funzione circoscritta ai reati commessi all’interno delle proprie comunità, ha poi consentito loro, in alcuni casi, di raggiungere livelli criminali di assoluto rilievo, tali da consentire, come detto, la gestione di traffici illeciti transnazionali». 

Intanto i cinesi si stanno sempre più integrando. «Milano non potrebbe esistere senza il suo Duomo. La Veneranda Fabbrica è una realtà di straordinaria energia, immediatamente identificabile con lo spirito che ha sempre contraddistinto Milano nel contesto internazionale, fatto di dialogo di partecipazione popolare». Parole di un vecchio borghese meneghino? No di Aibin Mao, presidente della Italian Chinese Business Association, neonata associazione di imprenditori cinesi che lavorano in Italia che ha adottato una guglia del Duomo nell’ambito della campagna di raccolta fondi «Adotta una guglia» lanciata dalla Veneranda Fabbrica. E mentre gli esempi di integrazione a livello socio economico sono numerosi, la mafia cinese si muove. Soprattutto all’interno della stessa comunità.

D’altronde oggi gli affari della mala cinese in Italia sono lievitati e secondo un report dell’Interpol soprattutto nel nord Italia, in quanto a gruppi più organizzati, la fanno da padrone gang come Green Dragon, Black Society e Red Sun, che da Milano hanno potuto espandere i propri confini anche in Austria, Francia e Svizzera. Integrandosi con le mafie di casa nostra con una merce preziosissima: la possibilità di accedere ai mercati criminali, e non solo, cinesi.

L’EVOLUZIONE CRIMINALE: DAL TRAFFICO DI DROGA ALLE ATTIVITA’ ECONONOMICHE

Un’evoluzione che ha portato i gruppi criminali cinesi, che secondo gli investigatori non si muovono come un vero e proprio monolite ma come «distinti gruppi criminali in grado di interagire tra loro», a stringere rapporti anche con la mafia di casa nostra. Da nord a sud del paese, dalla Milano della “Chinatown” in giù la capacità di interfacciarsi, su tutti con la camorra napoletana e la ‘ndrangheta calabrese è emersa con forza negli ultimi anni.

D’altronde già nelle carte del maxi-processo istruito da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino entrava la pista del traffico di stupefacenti tra Bangkok-Roma-Palermo, il cui terminale in Thailandia veniva identificato nel cittadino cinese, detto appunto dai suoi sodali italiani “il cinese”, Koh Bak Kin. Una struttura che a cavallo degli anni ’70 e ’80 ha reso una fortuna al clan mafioso di Rosario Riccobono, smantellato, almeno nella sua dimensione transnazionale, dai mandati del pool del maxiprocesso. E se Koh Bak Kin era il terminale di Cosa Nostra in Thailandia, il «capo dei capi» di quella organizzazione con base in Thailandia era un altro cittadino cinese: Chang Chi Fu.

Il racconto di Koh Bak Kin ai giudici di Palermo è custodito in ben otto faldoni degli atti del maxi-processo, e i giudici del pool scrivono a chiare lettere che Kin abbia detto molto meno di quello che sapeva. Correva l’anno 1985, non deve quindi stupire la capacità dei gruppi criminali cinesi nell’interfacciarsi con quelli italiani e fare affari. Affari che nel tempo si sono evoluti e non si rivolgono più solamente al territorio asiatico e fanno parte dell’economia criminale italiana a tutto tondo.

I rapporti tra mafia cinese e Cosa Nostra furono già oggetto d’indagine durante il maxiprocesso istruito dal pool di Falcone e Borsellino nel 1985

Oggi le organizzazioni criminali cinesi in Italia, riporta la Direzione Nazionale Antimafia, sono «in grado di far affluire nei circuiti commerciali occidentali ingenti quantità di prodotti contraffatti e/o di contrabbando, nonché di condizionare i flussi migratori per il conseguente sfruttamento (sessuale e/o quale forza lavoro) dei clandestini una volta giunti nei Paesi di destinazione». Non solo, perché oltre ad attività strettamente criminali, grazie anche alla compiacenza di professionisti italiani l’economia criminale cinese ha trovato modi ed escamotage per rendersi imprendibile dal fisco, e anzi, mettersi addirittura in una posizione di vantaggio.

Non sono solo quindi centri massaggi, bar e ristoranti, che in alcuni casi coprono ingenti attività di riciclaggio, ma anche stratagemmi che rendono fruttuose strategie criminali rodate tramite trucchi contabili e società fantasma. Si tratta, per esempio, del meccanismo “apri e chiudi”, tipico di questi gruppi criminali, e ben delineato nell’operazione della Guardia di Finanza “China Open & Close”. In questa indagine, conclusa nel gennaio del 2013 si è arrivati all’accertamento di 5milioni di euro di imposte evase, e alla confisca di 700mila euro nei confronti di un imprenditore cinese.

Il meccanismo “apri e chiudi” permette di non saldare le imposte e anche di maturare addirittura un credito nei confronti dell’Erario

Il sistema “apri e chiudi” consiste, spiegano gli investigatori, nell’apertura di una posizione IVA per svolgere una attività con un arco temporale molto breve, mediamente due anni. A questo punto l’imprenditore chiude la posizione evitando di assolvere gli adempimenti fiscali e facendo aprire la medesima attività, almeno formalmente, ad altri cittadini cinesi mantenendo attrezzature, personale, clienti e fornitori. Le indagini dell’operazione in questione si sono sviluppate tra le province di Como, Varese e Milano. Allo stesso modo il meccanismo ha permesso alle società di non saldare i debiti per le imposte, ma anzi, questa situazione di continuo transito da un’azienda all’altra ha creato a favore delle nuove imprese acquirenti, scrivono i magistrati, “crediti” d’imposta inesistenti da scontare nei confronti del Fisco. Il tutto grazie anche all’aiuto e ai consigli di un consulente fiscale italiano.

«La criminalità c’è, ma anche gli ultimi dati dicono che i cinesi chiedono sempre di più l’intervento di polizia e carabinieri»

«A Milano, per esempio non possiamo parlare di Triade – spiega una fonte che vuole mantenere l’anonimato molto inserita nella comunità milanese che annovera almeno 80mila cinesi. A Prato ci sono stati diversi episodi di associazione a delinquere, ma non siamo a livelli delle mafie italiane. Nel capoluogo lombardo sono soprattutto le associazioni che arrivano dalle varie province della Cina a gestire il territorio, in modo legale. La criminalità c’è, ma anche gli ultimi dati dicono che i cinesi chiedono sempre di più l’intervento di polizia e carabinieri».

Leggende e miti narrano che molti bar aperti dai cinesi sarebbero di proprietà della criminalità organizzata. Spesso pagano in contanti e i soldi non si sa da dove arrivano. «In realtà – continua la fonte – durante i matrimoni cinesi la cosiddetta lista nozze è fatta di regali in denaro. Le famiglie sono molto numerose, gli amici pure. E ci possono essere anche 500 invitati che versano anche 300 euro a testa. Insomma cifre come 200mila euro si riescono a trovare facilmente». Eppure di leggende sulla comunità cinese italiane ne continuano a girare. Dal fatto che di funerali non ce ne sono. «Alcuni si fanno cremare e portano le loro ceneri in Cina, altri invece sono sepolti a Lambrate o a Musocco. Purtroppo l’ignoranza genera mostri».

I REATI

Importante a livello economico risulta essere il “costo” della contraffazione. Il giro d’affari di quella che viene definita “industria del falso” è stimato fra il 2 ed il 7 % dell’intero commercio mondiale e, per quanto riguarda il nostro Paese, uno studio del CENSIS quantifica il peso della contraffazione, in termini di mancato gettito, in oltre 5 miliardi di euro, pari al 2,5 % del totale delle entrate tributarie.

La Direzione Nazionale Antimafia: «il panorama internazionale della contraffazione è dominato dalla produzione cinese destinata al mercato occidentale»

Per i magistrati della Direzione Nazionale Antimafia «si è assistito ad una crescita esponenziale del fenomeno, il panorama internazionale della contraffazione è dominato dalla produzione cinese destinata al mercato occidentale». I controlli doganali più stringenti nell’ultimo arco di tempo non hanno fatto desistere comunque l’import-export della contraffazione: l’ingresso della merce avviene sempre di più tramite i canali doganali meno osservati come quelli dell’est Europa e in particolare dal porto di Rotterdam, vera porta sui territori di Germania, Francia, Italia e Repubblica Ceca.

Popolazione cinese residente per regione (ISTAT)

Stesso discorso può essere applicato anche al contrabbando e le zone a rischio segnalate dagli inquirenti riguardano in particolare il porto di Gioia Tauro, di Napoli, la città di Roma, La Spezia e Firenze.

La Cina criminale in Italia però non è solo contraffazione di capi nei distretti come quello di Prato e contrabbando. Sempre di più le attività di ingresso illegale dei connazionali sul territorio italiano (grazie anche alla sola complicità di cittadini e professionisti italiani) e la prostituzione diventano fonti primarie di reddito. Per quanto riguarda la prostituzione, si nota dalle indagini, avviene «per lo più all’interno di apparenti centri estetici, il cui numero è in costante ascesa specie nelle regioni italiane centrali e settentrionali, od all’interno di abitazioni i cui affittuari spesso risultano essere italiani a tal fine compiacenti».

Prostituzione, riciclaggio e anche il traffico di rifiuti sono tra i nuovi business criminali delle organizzazioni cinesi in Italia

I trafficanti cinesi non hanno esitato in questi ultimi anni a prendersi la loro parte anche nel business della “monnezza” in zone sensibili come i porti della Puglia, della Liguria e della Campania. Tra Taranto, Genova e Napoli sono stati rintracciati container destinati in Cina contenenti rifiuti speciali non trattati, pronti a partire grazie all’interessamento di cittadini cinesi sul territorio.

Un capitolo corposo delle attività firmate dalla criminalità cinese in Italia riguarda il reimpiego dei capitali illeciti, che vengono reimmessi nei circuiti di economia legale, speculazioni anche lecite per l’acquisto di immobili in aree urbane, acquisti in massa di esercizi commerciali, spesso, annotano gli inquirenti «rilevati da titolari italiani in difficoltà», nonché l’acquisto di imprese in dissesto rimesse in pedi grazie alla forza-lavoro clandestina a “costo zero”.

Proventi che spesso vengono riciclati attraverso le agenzie di Money Transfer, che vedono partire dalll’Italia verso la Cina cifre vicine ai due miliardi di euro. Tra tutti i Paesi la Cina è infatti quello a cui dal nostro Paese viene inviato il maggior volume di denaro seguito da Romania, Filippine e Marocco con 800milioni, 712 e 251milioni di euro. Basti pensare che, riporta di nuovo il rapporto della Direzione Nazionale Antimafia «nella sola provincia di Roma, luogo di domicilio fiscale di migliaia di aziende rappresentate da cittadini cinesi che importano i loro prodotti nel porto di Napoli, partono flussi finanziari dell’ordine del miliardo di euro annuo».

«Nella sola provincia di Roma, luogo di domicilio fiscale di migliaia di aziende rappresentate da cittadini cinesi che importano i loro prodotti nel porto di Napoli, partono flussi finanziari dell’ordine del miliardo di euro annuo»

L’invio di denaro in patria tramite Money Transfer da parte della criminalità cinese avviene tramite prestanome e false generalità di soggetti ignari o addirittura inesistenti. Una recente indagine della guardia di finanza ha permesso di individuare 212 persone che tramite il sistema del frazionamento (smurfing) sono arrivati a inviare in tranches da 1999,99 euro una somma complessiva di oltre 50milioni di euro, frutto di altri reati come la frode fiscale, il contrabbando, la contraffazione e lo sfruttamento della manodopera clandestina.

Elaborazione Fondazione Leone Moressa su dati Banca d’Italia, Istat e Fondo Monetario Internazionale

I PROCEDIMENTI CHE NON CI SONO: LA STOCCATA DELLA DIREZIONE NAZIONALE ANTIMAFIA AI PM

Se da punti di vista investigativi potrebbero arrivare molti spunti, altrettanto non si può dire per i procedimenti aperti dalla magistratura. Una stoccata decisa è arrivato infatti dall’ultimo report della Direzione Nazionale Antimafia: «premesso che» scrive la Consigliere Maria Vittoria De Simone, le modifiche legislative hanno aumentato le competenze delle Direzioni Distrettuali Antimafia «un diverso approccio anche ai fenomeni criminali tipicamente riconducibili alla etnia cinese, tuttora, in alcune sedi ove è massiccia la presenza di comunità cinesi o sono maggiormente interessate a fenomeni di contrabbando e/o contraffazione, risulta ancora un esiguo numero o addirittura nessun procedimento DDA iscritto a carico di cinesi». Insomma, si chiede la Direzione Nazionale Antimafia, come è possibile che in territori in cui la presenza non solo della comunità cinese, di per sè indicatore insufficiente, ma di società e laboratori gestiti dai cinesi stessi a rischio contrabbando e contraffazione ci siano pochi procedimenti o addirittura nessun procedimento aperto dall’autorità giudiziaria?

Si chiede la Direzione Nazionale Antimafia: come è possibile che in territori a rischio contrabbando e contraffazione ci siano pochi procedimenti o addirittura nessun procedimento aperto dall’autorità giudiziaria? Gli esempi di Milano, Torino e Genova

Una sottolineatura passata in questi mesi quasi in sordina, se non con un cenno apparso su alcuni giornali locali. «Si nota – scrive la Direzione Nazionale Antimafia – la rilevanza del numero dei procedimenti iscritti presso la DDA di Brescia che è diventata la prima Procura d’Italia come numero di iscrizioni a cittadini cinesi. A seguire le sedi di Roma, Catania (che negli anni precedenti, a fronte del numero di cinesi residenti nel territorio aveva iscrizioni inconsistenti), Lecce e Trieste.

Fonte: Comando Regionale Guardia di Finanza Toscana

In relazione alla popolazione di origine cinese ufficialmente residente, quest’anno emerge la mancanza di procedimenti a Firenze, la scarsità di iscrizioni a Milano e ancora una volta l’inconsistenza delle iscrizioni presso la sede di Torino, mentre un vero e proprio boom avviene nel distretto di Brescia al nord e Catania al sud, confrontando i dati con la rilevazione precedente». Su Firenze era stato proprio il prefetto Luigi Varratta a mettere le cose in chiaro davanti alla commissione parlamentare: «dagli elementi che abbiamo sulla presenza della criminalità cinese si può forse dire che questa criminalità, che tra quelle straniere è quella che rappresenta il maggior pericolo per la sicurezza e per la legalità del territorio non solo fiorentino, ma toscano in generale, potrebbe diventare la quarta o quinta mafia».

Boom di procedimenti a carico di cinesi a Brescia e Catania

Anche su Genova l’azione della locale Direzione Distrettuale Antimafia risulta inconsistente, «nonostante – chiosa di nuovo la Dna – la presenza del maggior porto italiano di ingresso di merci dalla Cina».

LE DIFFICOLTA’ DELLE INDAGINI

Due anni fa nel corso delle audizioni della Commissione Parlamentare Antimafia il procuratore capo di Firenze Giuseppe Quattrocchi, e il prefetto del capoluogo toscano Luigi Varratta, dopo aver ripercorso le vicende delle infiltrazioni della criminalità cinese nel tessuto economico toscano, hanno messo in luce un aspetto interessante e su cui, a due anni di distanza sembra essere cambiato ben poco.

Le difficoltà emerse nel corso dell’audizione hanno riguardato soprattutto la possibilità di tradurre le intercettazioni telefoniche: «circa la metà delle intercettazioni effettuate rimane senza traduzione», ha detto in audizione il capo della procura di Firenze Giuseppe Quattrocchi. «Le conversazioni – proseguiva Quattrocchi – captate in corso di intercettazioni sono in lingua cinese. Ora, finché parlano in mandarino abbiamo un numero sufficiente di interpreti ma, poiché le bande giovanili cinesi che agiscono con metodo mafioso provengono soprattutto dal Fujian, non abbiamo interpreti di lingua fujianese. Di conseguenza, il 50-60% del materiale probatorio che abbiamo captato nel corso delle intercettazioni rimane nei dischetti e nessuno ce lo traduce. Si è tentato, forse a livello di Procura nazionale antimafia, di creare un albo di interpreti, però il progetto non va avanti; non riesce a raggiungere risultati, sicché la difficoltà permane».

I pm: «circa la metà delle intercettazioni effettuate rimane senza traduzione»

I dialetti del Fujian e dello Zhejiang, regione da cui provengono la maggior parte degli uomini sotto inchiesta, sono di difficile traduzione anche per chi conosce il cinese mandarino, in quanto, appunto, dialetti.

E quei pochi traduttori che ci sono? Pagati 5 euro l’ora e destinatari anche di intimidazione da parte dei boss connazionali. Diceva in commissione il pm Squillace Greco «abbiamo, ad esempio, un’enorme difficoltà a celebrare i processi, perché (i traduttori, ndr) hanno paura». Le mafie italiane intanto continuano a incontrare quelle cinesi e straniere in generale: «il terreno d’incontro – rivelano i magistrati della Direzione Nazionale Antimafia – è già costituito, e lo sarà ancor di più nel futuro, dalle contraffazioni e dal riciclaggio, perché sono i campi più redditizi, come del resto lo sono il lavoro nero e lo sfruttamento della prostituzione che producono alti redditi e permettono agli asiatici di avere una base economica di partenza per entrare in affari con le organizzazioni mafiose locali».

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