Gli oligarchi russi: «Le sanzioni ci fanno ridere»

Gli oligarchi russi: «Le sanzioni ci fanno ridere»

Solo a prima vista può sembrare un classico convegno. Il Forum “Dialogo delle Civiltà”, organizzato a Rodi, all’Hotel Aldemar Paradise Mare, è una conferenza di quattro giorni su temi interculturali e interreligiosi. Il luogo di mare è di rito, il trattamento è ottimo. Il programma, ispirato al centenario della prima guerra mondiale, sembra fatto per addormentare gli elefanti. Eppure chi si immagina un pensoso raduno di studiosi (ci sono anche loro) per discutere di tematiche filosofiche, si sbaglierebbe. Qui si tratta di politica, e di attualità.

A scorrere la lista dei partecipanti tutto diventa chiaro: l’organizzatore del dialogo interculturale è Vladimir Yakunin, il presidente delle ferrovie russe; uomo dell’establishment, (forse) ex membro del Kgb, intimo di Putin e più volte indicato come suo successore. È stato colpito da poco dalle sanzioni economiche americane per i fatti in Ucraina. All’apparenza se ne fa beffe: «Vi sembra che le mie funzioni siano state compromesse? Direi di no. Funziono benissimo: non ci sono lamentele nemmeno da parte femminile», scherza. Oppure: «Non posso andare in Australia, lo so. Ma i canguri li vedo anche allo zoo». Le conseguenze, però, un poco si sentono. Il numero degli ospiti, ad esempio, è diminuito rispetto agli anni scorsi. «Abbiamo avuto problemi con le adesioni», ammette. Qualcuno ha scelto di non venire.

A sostenerlo, però, c’è tutto un mondo. Alla cerimonia inaugurale incassa l’appoggio del Metropolita di Rodi, che esprime solidarietà «per la situazione in cui si trova la Russia». La vicinanza della chiesa ortodossa a Mosca sembra logica, fondata su una cultura comune. Yakunin, poi, l’ha nutrita con iniziative personali, ad esempio il Fondo per le organizzazioni ortodosse Andrei Perzovanny, con cui finanzia incontri ed eventi benefici.

Ospite di Yakunin è poi il presidente della Repubblica Ceca, Milos Zeman. Ha una storia politica controversa, fatta di colpi di mano e prese di posizione discutibili (in particolare le sue esternazioni contro gli arabi). «Le sanzioni impediscono il dialogo», dice. «Ma sono controproducenti per chi le emette: ad esempio a Cuba 40 anni di sanzioni hanno provocato 40 di Fidel Castro», ha detto. Zeman, a capo di un Paese dell’Unione Europea che a sua volta ha emesso sanzioni contro la Russia, si trova in una posizione delicata. Anche perché, all’inizio del conflitto in Ucraina, aveva chiesto con forza provvedimenti contro Mosca. Ora però si trova a suo agio e sembra aver cambiato idea. «Il cancro da combattere, la vera anti-civiltà, è il Califfato. Nel 2020 sostengono che saranno padroni di mezza Europa. Sembra una follia, ma anche Hitler lo pensava. E ci è andato molto vicino». Il nemico comune, il terrorismo islamico, sembra una buona soluzione.

Non va dimenticato Walter Schwimmer, navigato politico austriaco, che ricorda come l’Unione Europea abbia «ignorato l’importanza della Russia, dimenticando la sua cultura, le sue tradizioni. Non l’ha mai considerata un interlocutore vero». Un errore. Il mea culpa, però, si conclude con una inaspettata quanto sfumata critica: «la Russia non ha mai capito la filosofia liberale dell’Occidente. Non ha capito i valori di una società libera», dice. Affermazione che non viene raccolta da nessuno.

Di fronte a tutto questo, la domanda sorge spontanea: come mai il Forum parla di “incontro di civiltà”e di “dialogo”? I protagonisti, a prima vista, non sembrano i più adatti. La risposta è complessa.

(Foto di gruppo con drone) 

La prima chiave si trova nel breve passaggio in un opuscolo consegnato agli invitati alla manifestazione. In occasione dei cent’anni della Prima Guerra Mondiale, «il timore di un nuovo conflitto è fondato», e «le radici di questa minaccia sono nel progetto di un “Nuovo Ordine Mondiale” di dominio globale, perseguito da un’ideologia totalitaria che vuole distruggere la diversità delle tradizioni culturali e delle “immagini del mondo” storiche dell’umanità e della natura». Per chi non avesse capito, ci pensa Yakunin a chiarire: «È l’ideologia neoliberale», che «impone una standardizzazione globale di ogni cosa, dal taglio dei vestiti – e guardando a chi scrive – a quello della barba». Dietro, ci sono sempre loro: gli Stati Uniti. Gli angloassoni in generale, l’Occidente.

Qui il punto di vista delle cose è diverso: è filorusso

«Hanno accusato la Russia di aver acceso il focolare in Ucraina, ma non siamo stati noi. È stata la Nato. Se Obama ha detto cose diverse, le possibilità sono due: o ha cattive intenzioni o ha cattive informazioni», ribadisce, arringando la folla. «Quando cominciano le guerre, bisogna vedere a chi convengono. Chi approfittò della Prima Guerra Mondiale, che vide il crollo degli imperi europei dell’800? Chi approfittò della Seconda Guerra Mondiale?», chiede. La risposta è sempre la stessa.

Insomma: sembra che, atterrando a Rodi, chi non si è precipitato subito in spiaggia sia passato, senza accorgersene, dall’altra parte di una nuova cortina di ferro. Qui il punto di vista delle cose è diverso, anzi, speculare. «Hanno detto che il referendum in Crimea era manipolato – dice Yakunin – Ma è una follia. Come può essere manipolato un risultato del 98 per cento? Lo capirei se fosse stato il 52 per cento. Allora sì, il sospetto può esserci». La lettura degli eventi è di parte, è russa. Tanto sfacciata da disarmare. E per paradosso diventa, poco alla volta, convincente. «È la Nato che vuole disunire, minacciare, colpire. La Russia, se sotto pressione, diventa più forte e unita», dice Yakunin. Se gli interessi di Mosca passano per il dialogo, allora è il dialogo che conta. Ma in che senso? E l’Italia? Yakunin lo spiega a Linkiesta: «La posizione finora è stata intelligente: stabile, calma. L’importante è impedire questa atmosfera di ostilità prevalga anche nei rapporti tra i due Paesi. Le conseguenze sul piano commerciale, industriale e turistico sarebbero gravi», lascia intendere. E sorride.

Come si diceva prima, la questione è complessa. Il secondo passo è considerare la vera funzione del Forum. Secondo alcuni analisti americani (ma, dopo ore di convegno, chi si fida più?) si tratta di una “operazione di influenza”: un tentativo di persuasione che mira a coinvolgere leader politici e organi di stampa per creare un clima di opinione preciso. In questo caso, filo-russo. Una forma di soft power per diffondere idee e creare consenso che ruota intorno a una figura che, nel parlare di “dialogo interculturale” promuove gli interessi di una sola posizione. Quella di Mosca.

Del resto, come fanno notare alcuni tra gli uditori (con background filosofici profondi), parlare di “civiltà” è già una cosa poco chiara. Cosa è una civiltà? Come la si definisce? Il concetto è approssimativo e manipolabile, per nulla chiaro. Ricorda molto la costruzione del concetto di “nazione”: anche quello era più vicino al sentimento che alla ragione – e, in via incidentale, molto legato all’epoca della prima guerra mondiale.

Resta anche da definire il “dialogo”, e capire se un incontro in un hotel extralusso tra pochi politici e intellettuali, con il codazzo di giornalisti al seguito, sia davvero una forma di dialogo. Siamo di fronte a una impostazione ideologica dei termini? Forse sì. “Civiltà” e “dialogo” sono parole da interpretare. Cosa significano? La risposta è, anche qui, complessa. Ma, come si spiega sotto, è quella definitiva.

I successi economici dipendono alla civiltà di chi li intraprende: per i russi si basano sull’etica ortodossa

Il punto centrale di tutto è la “razvitie”, cioè lo sviluppo. È, al tempo stesso, una visione slavofila di politica economica e industriale che si combina in una serie di progetti infrastrutturali di ampia portata. Il Forum è la sua diretta emanazione. Secondo Yakunin, la Russia deve seguire un modello di sviluppo preciso, molto diverso da quello dei Paesi europei e in particolare da quello degli Usa. Lo stato deve avere un ruolo forte nell’economia e, soprattutto, deve garantire il legame tra economia ed etica. Per i liberisti la modernizzazione dello Stato, dice Yakunin in uno dei suoi scritti, «è la sua abolizione. Tutta la retorica anti-Stato che circola in Russia ha l’obiettivo di far crollare lo Stato in quanto tale». In Russia non deve succedere.

«I risultati di una politica economica non devono essere misurati solo sulla base di indicatori economici, ma anche di criteri etici». Anche perché l’etica può essere utilizzata come «risorsa speciale per la crescita e lo sviluppo economico». E allora «i successi economici sono relativi alla civiltà di chi li intraprende»: per i russi devono basarsi su principi derivanti dall’etica ortodossa. Il deterioramento della posizione russa nell’arena internazionale, prosegue, «dipende dal fatto che le sue fondamenta sono fragili, si reggono su posizioni dogmatiche straniere, fatte di parole e concetti di un vocabolario alieno e imposto da fuori», e non «sulle tradizioni che hanno guidato il Paese per oltre mille anni». Il rifiuto del mercato è implicito: l’obiettivo di una politica economica russa “sana” è il «rafforzamento del suo potenziale militare da un lato, dall’altro il consolidamento della sua posizione nell’economia mondiale». Solo così il Paese «potrà raggiungere il principale obiettivo di Putin: la trasformazione della Russia in una grande potenza». Stato forte, ripresa della tradizione religiosa, potere economico e militare. Questo per quanto riguarda la “civiltà”. Si spiega così la presenza di ecclesiastici ortodossi, l’odio per le discipline liberali e l’irritazione sugli scontri sull’Ucraina, vera zona di faglia tra due visioni del mondo opposte.

Per capire il “dialogo”, invece, occorre abbandonare il lato teorico e abbracciare quello pratico: la “razvitie” si trasforma in una serie di “grandi opere” infrastrutturali, un mega-corridoio finalizzato alla creazione di nuove vie di commercio e di trasporto, energetico e no. Addirittura alla nascita di nuovi centri urbani: «Questo è il vero sviluppo», proclama Yakunin. È la “Via della Seta” del futuro: progetti da realizzare, per necessità, in cooperazione con altri Paesi. Non è un caso, allora, che anche al Convegno i relatori sul tema della Seta siano cinesi. Il coinvolgimento dei vicini asiatici (ma anche europei, la cosa ci riguarda) è fondamentale per creare nuove opere collettive nel rispetto dell’unicità delle tradizioni e delle culture altrui (rispetto che i teorici russi reclamano per il proprio Paese). E questo è il “dialogo”. Insomma, tutto torna.

Una ad una, le tessere vanno al loro posto: l’obiettivo è una Russia forte, grazie alla collaborazione dei Paesi vicini; il mezzo è la diffusione di un’idea economica fondata sullo Stato e sulla tradizione culturale e religiosa. Il convegno è solo uno degli strumenti per dibattere e diffondere il proprio modo di vedere il mondo; si parla di “civiltà” e “dialogo” perché li si interpreta in questo modo. E sono sinceri nel farlo. Di fronte alle difficoltà della crisi globale, viene da pensare: forse hanno anche ragione loro.

C’è solo una cosa che rimane da chiarire: perché a Rodi? L’isola è bella, senza dubbio, ma ha una storia millenaria che, a ben guardare, suona come un avvertimento: qui costruire un nuovo colosso, anche solo metaforico, non è una buona idea.

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