Parigi, XI arrondissement. Un freddo pungente attanaglia le gambe e le mani delle decine di giornalisti e curiosi che s’affollano davanti alle transenne ed i cordoni che la gendarmerie e la polizia francese hanno piazzato attorno alla rue Nicolas-Appert, dove la mattina del 7 gennaio 2015 ha avuto luogo il più sanguinoso attentato su suolo francese degli ultimi quarant’anni. Un commando armato fino ai denti di guerriglieri vestiti di nero e con passamontagna ha fatto irruzione al grido di Allahu Akbar nella redazione del giornale satirico Charlie Hebdo, giustiziando otto giornalisti, un economista ed i poliziotti che erano accorsi. Volevano vendicare l’affronto fatto al Profeta per la pubblicazione delle vignette satiriche del giornale e lo hanno anche ribadito con grida paurose per strada, mentre riguadagnavano l’auto poi abbandonata più lontano, alla rue de Meaux, nel XIX arrondissement. Bilancio provvisorio, 12 morti e 11 feriti, di cui alcuni gravissimi.
Una nebbiolina fredda sale dalle strade. La città sembra non essersi mai svegliata completamente, l’orologio bloccato alle undici e trenta, l’ora del massacro, dell’undici settembre francese, che suona come una campana a morto per la libertà d’espressione in Francia. Non lontanto da qui, a Place de la République, storica piazza sede di manifestazioni e cortei, centinaia di persone tra cui giornalisti, studenti, cittadini comuni si riuniscono per manifestare contro la barabrie e per gridare forte «Je Suis Charlie».
Nei dintorni della strada del massacro la polizia lascia passare i giornalisti alla spicciolata. I pochi commercianti che hanno ancora la serranda alzata sono diffidenti, spaventati ed esitano a rispondere alle domande. Dall’altra parte di boulevard Richard Lenoir, gli avventori di un bar scrollano le spalle. Uno di loro mi parla del gestore di un ristorante sushi che avrebbe visto tutto. Lo scontro a fuoco con la polizia, la bicicletta rovesciata e schiacciata dall’auto degli attentatori, il marciapiede dove il poliziotto ferito è stato orrendamente giustiziato. Non parla francese né inglese. Solo cinese. Un giornalista mi racconta che solo un corrispondente della Cctv di Pechino è riuscito a parlargli. Quando mi avvicino al ristorante lo trovo chiuso. Le serrande sono abbassate.
Più vicino al luogo dell’attentato c’è un negozio di luci. All’interno un uomo basso, sulla cinquantina, inizialmente diffidente, dopo alcune esitazioni racconta ciò che ha visto. «La macchina nera degli attentatori è passata di qui – mi dice – ho sentito esplosioni, credevo si trattasse di petardi. Ho sentito gente gridare. Poi ho riconosciuto chiaramente il rumore un’arma automatica. Mi sono nascosto subito nel retro del negozio pensando ad una rapina andata male». Il quartiere è sotto shock. Il fatto che l’attentato sia di matrice islamica preoccupa le numerose comunità musulmane che vivono qui, che temono le rappresaglie dell’estrema destra. A peggiorare le cose è il fatto che oggi è proprio il giorno dell’uscita del romanzo Sottomissione di Houellebecq, romanzo in cui l’autore immagina una Francia governata dalla sharia. Che i suoi démoni abbiano preso vita? Di certo gli toccherà la scorta, per aver soffiato sul fuoco dell’Islam radicale. Probabilmente, diventerà una sorta di Salman Rushdie dell’estrema destra francese.
Poche decine di metri più in là m’imbatto in un nuovo blocco di poliziotti. Riesco a passare. Oltre la transenna la polizia scientifica esamina la traiettoria delle armi e la posizione della bicicletta del poliziotto, ancora riversa al suolo. Sembra di stare in un set cinematografico. Li vicino sono sparsi i frammenti del vetro della volante della polizia che non è riuscita a fermare gli aggressori. La polizia chiede ai pochi giornalisti e fotografi di spostarsi dal luogo. Noto un negozio di ferramenta con la serranda semiabbassata proprio nella linea di mira degli esperti della scientifica. Mi affaccio. Una signora impaurita mi apostrofa «Che vuole?» Vedendo la mia macchina fotografica si ammorbidisce. Mi lascia entrare. Ci beviamo un caffè. E’ visibilmente terrorizzata da quanto accaduto. «La sparatoria è avvenuta proprio qui fuori – mi racconta – appena ho sentito i colpi ho capito che stava succedendo qualcosa di grave ed ho subito abbassato la serranda. Una signora che era vicino alla vetrina si è inginocchiata a terra per paura di essere colpita. Abbiamo chiuso tutto. Essere curiosi in questo caso porta alla morte». Mi chiede di non fotografarla. I pochi commercianti che hanno parlato con i giornalisti che girano per il quartiere hanno paura di possibili rappresaglie. «In realtà volevano assassinare Charb [direttore di Charlie Hebdo ndr]» mi dice un vecchio lì vicino. Fuori alcuni passanti guardano su un telefonino il video dell’esecuzione del poliziotto. L’immagine di un poliziotto in bicicletta che affronta guerriglieri armati fa quasi tenerezza. Forse la Francia, pur abituata al terrorismo di matrice algerina degli anni ’90 e a tanti attentati causati dai postumi di un complicato passato coloniale, non è abituata a questo tipo di guerra. Inconcepibile assassinare giornalisti seduti in una redazione nel cuore di Parigi.
È quello che mi dice, qualche minuto dopo al telefono, Antoine Héry, responsabile dell’ufficio di Reporters Sans Frontières di Parigi. «Nessuno di noi poteva mai immaginare che un tale attentato potesse essere perpetrato su suolo francese. Normalmente queste cose succedono in Iraq, in Siria, in Somalia, non in Francia. Siamo tutti scioccati. Questi giornalisti sono stati assassinati soltanto perché portavano avanti una battaglia per la libera espressione. Conoscevamo le battaglie di Charlie Hebdo ma non ci aspettavamo tanta violenza. Questo giorno resterà per sempre nella memoria come una giorno nero, maledetto per la stampa in Francia. Niente resterà come prima. È una guerra di simboli. La redazione di un giornale è il simbolo della libertà di espressione e dell’informazione libera». La sua voce tradisce emozione e tristezza. Gli chiedo se teme che un evento simile possa far diminuire la libertà di stampa in Francia, visto che d’ora in poi forse molti giornalisti, per paura di rappresaglie, eviteranno di scrivere e pubblicare su certi argomenti sensibili. «Spero di no – mi dice – anche se questo attentato potrebbe paralizzare altre redazioni, indurle all’autocensura. I terroristi erano armati, motivati ed avevano preparato l’attacco fino nei minimi dettagli. L’idea che si possa riprodurre un evento del genere può spaventare altri giornali. Sarebbe una vittoria completa del terrorismo, però. Al contrario, bisogna invece continuare a scrivere, pubblicare, fare caricature. Non bisogna aver paura».
Ritorno sui luoghi dell’attentato. Oramai ci sono più giornalisti che abitanti del quartiere. Alcuni hanno chiuso le finestre ed abbassato nervosamente le serrande. Altri si affacciano timidamente per poi rientrare spaventati dagli zoom e dalle telecamere piazzati come cannoni sulla strada del massacro. Vedere dei guerriglieri che sembrano usciti dall’armata del califfo Al Baghdadi sparare in pieno centro può paralizzare le gambe ma anche le menti. Parigi non è Kobane, anche se forse lo è stata per alcuni minuti. Le grida inconfondibili, l’onta su Maometto lavata col sangue dei giornalisti e dei poliziotti. Sull’onda di queste riflessioni poco dopo raggiungo per telefono Dominique Vidal, giornalista francese, storico ed esperto di Islam e Medio Oriente. La sua lettura degli eventi è spiazzante.
«È stato un massacro terribile. Charlie Hebdo è un giornale particolarmente critico nei confronti dell’Islam cosa che può aver scatentato la vendetta dell’Islam radicale. Tuttavia, non sono però spaventato dagli effetti che questo attentato può avere sulla libertà d’espressione. La Francia ha già superato momenti simili. Ciò che m’inquieta invece sono le conseguenze politiche che può avere questo attentato in un momento di ascesa dell’islamofobia e della crescita politica del Front National, o di fronte all’emergere di personaggi come Houellebecq o Zemmour che useranno la tragedia per alimentare l’odio e la divisione nella nostra società. Il timore è che si faccia l’amalgama tra gruppi terroristi e la comunità islamica francese nel suo insieme. I radicali esistono in tutte le religioni. Prendiamo ad esempio il libro di Houellebecq. Il suo romanzo sembra di finzione, ma in realtà riprende tesi politiche precise, ai margini del Front National, ovvero l’idea che la Francia possa soccombere all’Islam radicale, che possa diventare un paese dove vige la sharia. Ma è fumo negli occhi. Non ci si deve lasciar trascinare dalle emozioni e cadere in una visione dicotomica delle cose. E’ vero che due visioni opposte oggi si affrontano in Francia: da un lato la visione del Front National, il quale per inciso raccoglie attualmento il voto di un quarto degli elettori francesi e dall’altra la visione dell’Islam radicale, che deve essere combattuta. Ma bisogna mantenere la testa fredda, usare la ragione e riuscire a vedere le sfumature delle cose e non cadere nella trappola degli opposti fodamentalismi».
Lascio il quartiere con più dubbi che risposte. Le luci delle telecamere disegnano un luogo irreale, una città di cartapesta costruita per un film che forse nessuno vedrà. Dietro le luci accecanti delle telecamere, però, si percepisce un senso di paura, un’angoscia strisciante, che rischia di trascinare in un mare di emozioni confuse quello che fu il lucido e ragionevole paese di Voltaire.
@marco_cesarioq