Non lo sanno tutti, ma tra re e presidenti della Repubblica, il rapporto con il Quirinale non è mai stato molto sereno. Secondo i più superstiziosi il problema sarebbe un’antica (e non documentata) maledizione scagliata da papa Pio IX, “l’anatema di Papa Mastai”, che ancora aleggerebbe sulle stanze del Palazzo.
Una leggenda, certo. Ma come tutti sanno, ogni leggenda conserva un fondo di verità. Come si racconta per filo e per segno qui, quella dell’anatema “contro gli scassinatori del Quirinale” si appoggerebbe a una circolare diramata dal segretario di Stato Vaticano Monsignor Antonelli, dopo il 20 settembre 1870, a Regno d’Italia avviato e Roma conquistata. Si accusava Vittorio Emanuele II di aver commesso cose che nemmeno Mazzini (ed è tutto dire) nel 1848 aveva avuto il coraggio di fare. Da lì, con un ricamare di voci e di fantasia, si è arrivati alle parole del Papa scagliate contro i futuri inquilini del Quirinale, che allora erano i Savoia. Un anatema che sarebbe andato in eredità, dopo il referendum, anche ai presidenti della Repubblica.
Papa Pio IX
Tutta una boutade, certo. Ma è vero che, da quel momento, in pochi hanno mostrato coraggio e voglia di sfidare la maledizione del Papa. Salire al Colle significa già sette anni di guai. Meglio non peggiorare la situazione andando a disturbare un Papa (ora Beato, tralaltro). Vittorio Emanuele ha sempre mostrato diffidenza verso il Quirinale (la casa dei preti, per lui), luogo in cui morì. I suoi discendenti non hanno avuto migliore fortuna: Umberto è stato ucciso da un anarchico, Gaetano Bresci, il 29 luglio del 1900. Vittorio Emanuele III, invece, fu costretto ad andarsene in esilio, dopo aver visto la fine della monarchia, il disastro del fascismo, la sconfitta in guerra. Peggio di così.
In epoca repubblicana De Nicola si rifiutò sempre, e in modo categorico, di salire al Quirinale. Più che per timore della maledizione papale, lo fece per rispetto nei confronti degli ex sovrani, in quanto monarchico. Preferì soggiornare a Palazzo Giustiniani per tutta la durata del suo mandato, che fu breve. Ciononostante, farà portare sul Quirinale un letto d’ottone e un ritratto d’autore, che saranno subito rimossi al momento dell’elezione del suo successore: Einaudi. Anche lui monarchico, anche lui desideroso di restare a Palazzo Giustiniani (“perché c’è l’orto”, dirà). Ma alla fine, scortato da Giulio Andreotti, allora sottosegretario alla presidenza del Consiglio, salirà fino al Colle, e lo troverà come era stato lasciato da Vittorio Emanuele III. La moglie Ida non apprezzò il mobilio, “di un cinquecento finto che non si immagina”, dirà.
Luigi Einaudi
La maledizione non agì. Non avvenne nemmeno con Gronchi, il successore, perché il nuovo presidente della Repubblica non andò a vivere al Quirinale, ma restò nella sua casa nel Nomentano. Il Colle era un “ufficio” per lui, pare, anche per ospitare le numerose donne che gli facevano visita lontano dagli occhi della moglie.
Ben altra sorte toccò, invece ad Antonio Segni, che fu colpito da un ictus dopo due anni di presidenza e fu costretto a dimettersi, firmando con la mano sinistra. Morì poco dopo. Saragat, invece, andò incontro a una certa clemenza, da parte della maledizione, tanto che si parlò perfino di una sua conversione al cristianesimo (più volte smentita); mentre andò molto male, sul finale, a Giovanni Leone, che pure aveva trascorso con una certa serenità i suoi sette anni sul Colle. Colpito da un’inchiesta giornalistica per lo scandalo Lockheed, fu costretto al gesto delle dimissioni.
La maledizione colpirà ancora: non Sandro Pertini, che in modo furbo passerà le sue notti a casa, a Fontana di Trevi, ma Cossiga, il quarto presidente democristiano. Sceglierà di andarsene con un minimo di anticipo, in mezzo alle polemiche e a una raccolta di firme per metterlo in stato d’accusa. E come andò a Scalfaro? Abbastanza bene, a parte le voci sui fondi neri del Sisde. E a Ciampi? Non male, visto che la cosa peggiore che gli capitò fu di assistere alla sconfitta degli azzurri a Rotterdam, nella finale degli Europei del 2000. E Napolitano? Meno bene. Oltre alla questione del processo sulla trattativa Stato-Mafia, c’è anche il fatto che, contro ogni suo volere, al Colle ci è dovuto salire due volte.
Francesco Cossiga
In realtà il gioco della maledizione, verso gli ultimi anni della Prima Repubblica, sembrava già un po’ invecchiato. Lo stesso Andreotti, che pure la conosceva e ci scherzava sopra, l’aveva già sottoposta a diverse modifiche. Diventa “la maledizione dei presidenti Dc”, come dirà alla soglia delle elezioni del 1992, guardando alla fine che avevano subito gli ultimi tre capi di Stato democristiani; oppure la maledizione che colpisce “chi vuole salire sul Colle” e non chi poi ci va davvero. Del resto toccò anche a lui (oltre che a Forlani), sempre quell’anno, venire bruciato sul finale.
In questo senso, tra gli altri “maledetti”, cioè tra chi voleva diventare Presidente ma rimane a terra, si trova una lunga lista di nomi: candidati, candidabili, persone che ci sperano e che, per una serie di giochi interni, non riescono a vincere. Prodi, Veltroni, Franco Marini, per dire quelli delle ultime due tornate, bruciati per sempre. E D’Alema. Per questi sì, la maledizione di Pio IX aleggia ancora. Come diceva sempre Andreotti, non esiste un metodo per raggiungere il Colle, solo errori da non fare. Non turbare il vecchio Papa, quasi Santo, è uno di questi.