L’Editoria italiana è un morto che cammina?

L’Editoria italiana è un morto che cammina?

Era il 9 maggio del 2014 e in una delle sale del Lingotto di Torino, durante il Salone del Libro, andava in scena la consueta esposizione e disamina dei dati Aie sul mondo dell’editoria. Antonio Monaco, editore di Sonda, faceva in qualche modo la Cassandra, annunciando senza girarci troppo intorno l’imminente esplosione di due bombe ad alto potenziale nell’editoria italiana: la prima, che una parte importante dei piccoli e medi editori sarebbe scomparsa nel giro di 20 mesi; la seconda, i grandi gruppi editoriali, per sopravvivere, si sarebbero dovuti fondere, non per scelta, ma per necessità.

Sul palco di fianco a Monaco, Laura Donnini, ad di Rcs Libri, e Vincenzo Russi di Messaggerie Italiane, ascoltavano sorridendo, facendo finta che i dati snocciolati dall’Aie fossero il solito specchio del solito momento di crisi che, come sempre, stava per finire e che presto tutto il comparto sarebbe uscito dal tunnel.

Eppure, passato un anno, le bombe di cui parlava Monaco sono esplose o stanno per farlo: Messaggerie, il principale distributore italiano, ha acquisito Pde, concentrando il 60 per cento della distribuzione nazionale; e mentre Mondadori ha avanzato una proposta di acquisto a Rizzoli Libri che potrebbe andare a buon fine entro fine maggio creando un mega editore — la cosiddetta Mondazzoli — che da solo avrebbe il 40 per cento del mercato in mano, la galassia dei piccoli e medi editori sta continuando a languire, e andando avanti così solo una piccola parte ce la farà a vedere la fine della crisi.

A distanza di un anno da quel momento, abbiamo parlato con due editori, Antonio Monaco di edizioni Sonda e Pietro Biancardi di Iperborea. Il primo, che un anno fa era al Salone del Libro a discutere dei dati Nielsen, non ha cambiato avviso negli ultimi dodici mesi e conferma sostanzialmente la sua visione, arricchita anche dall’esperienza di presidenza dei piccoli e medi editori dell’Aie.

«Il mercato complessivo nel paese», dice Monaco raggiunto al telefono da Linkiesta «si è ristretto nell’ultimo quadriennio tra il 2010 e la fine del 2014 e, a meno che non intervengano forze straordinarie, continuerà a farlo per almeno i prossimi due anni».

Che aspetto avrà il mercato tra due anni?
Alla fine di questo processo di restrizione avremo un mercato del 30/35 per cento in meno dell’inizio della crisi.

Com’è la situazione dei piccoli e medi editori in Italia ad oggi?
In questo momento ci sono grosso modo tre tipologie di situazioni: quelli che resistono, quelli che innovano e provano nuove strategie e quelli che invece soffrono, sono quasi alle corde e non ce la faranno ancora per molto. Nessuno ha in mano numeri precisi per poter dire con sicurezza quante e quali siano le realtà in pericolo, ma qualche stima si può fare, anche se restano dati ipotetici.

Che stime possiamo fare dunque?
La percentuale dei piccoli editori che in questo momento sono in netta difficoltà e che potrebbero sparire nei prossimi anni, se non mesi, sono circa il 40 per cento. Per netta difficoltà intendo dire che la loro situazione economica è compromessa e che quindi hanno tre prospettive davanti a sé: la ricerca di nuove risorse, una soluzione difficile in questo momento, o la vendita, la cui possibilità dipende da caso a caso, o la chiusura, che è purtroppo, per la maggior parte di queste, la fine più probabile se non cambia qualcosa nel frattempo.

Quindi, se non succede nulla, circa il 40 per cento dei piccoli e medi editori semplicemente scomparirà?

Verrà colpito quasi metà del comparto, ciò significa che verrebbero colpite anche parti vitali del sistema, parti importanti che hanno un peso

Non stiamo parlando di dati sicuri e quantificabili all’unità, ma anche se sono stime e ipotesi, di certo possiamo stabilire che una stima del genere non rappresenta una tendenza marginale, né fisiologica. Stiamo parlando del 40 per cento non del 5. È una parte consistente. Se fosse il 5 per cento potremmo anche pensare che sia semplicemente una dinamica che può capitare, una sorta di “pulizia” del mercato che, come un’ecologia, si equilibra facendo cadere i rami secchi, le parti che non funzionano. Qui però siamo di fronte a un problema diverso. Il 40 per cento non sono i rami secchi, è quasi metà del comparto, ciò significa che verrebbero colpite anche parti vitali del sistema, parti importanti che hanno un peso, un valore, un significato, una storia, tutte cose che una volta perdute non si ricostruiscono in pochi mesi.

Tutti gli altri come sono messi?
Qualcuno sta riuscendo ad attuare pratiche che funzionano. editori che si stanno ingegnando, riuscendo non solo a sopravvivere, ma anche a far fruttare le proprie idee e la propria creatività per crescere. Queste noi le stimiamo al 15 per cento del comparto, quindi non un numero altissimo. Sono editori che hanno trovato e coltivato una nicchia stabile e solida, che stanno riuscendo a non essere travolti dalla crisi e che riescono a mantenere, se non in certi casi ad aumentare, i propri fatturati negli ultimi 4-5 anni.

Come hanno fatto?

Chi ha le energie e le idee creative per sviluppare la propria attività anche oltre al prodotto librario in sé ce la può fare

Spesso sono editori che riescono ad avere le energie e le idee creative per sviluppare la propria attività anche oltre al prodotto librario in sé, penso a iniziative come festival o feste o fiere, ma anche a corsi, workshop e via dicendo, riuscendo così a creare un ambiente culturale intorno ai libri, occupandosi di eventi, formazioni, relazioni con le istituzioni. Questo tipo di reazione alla crisi è ammirevole e rappresenta certamente l’ancora di salvataggio di molte realtà di quel 15 per cento di cui parlavo prima, ma purtroppo non è replicabile sempre, in ogni situazione. In altri casi è stato l’aver coltivato e lavorato bene in una nicchia che magari in questo momento li sta premiando e che rappresenta una base di stabilità in momenti come questo, o ancora, quando le realtà editoriali in questioni sono espressioni di comunità, di movimenti e via dicendo.

Il 40 sta morendo, il 15 ha forza e idee per salvarsi, e il restante 45 per cento?

Non torneremo mai più alla situazione di prima. Il mercato del futuro sarà più piccolo e sarà diverso

Tutti gli altri sono i “resistenti”, nel senso che non sono in una situazione di pericolo immediato — come il 40 per cento di cui parlavamo prima — ma devono comunque trovare dei modi per cambiare, evolversi, trovare ossigeno. Perché che il mercato si restringa non è una cosa passeggera. Questa è una cosa importante da capire e da cui partire per agire: non torneremo mai più alla situazione di prima. Il mercato del futuro sarà più piccolo e sarà diverso. E questo suo essere più piccolo e diverso impone agli editori o di diventare più piccoli, se si è capaci e se è possibile, o di diventare diversi, che è la strada più auspicabile.

Come dovranno cambiare?

In Italia la piccola editoria è un fenomeno generazionale, esploso negli anni Ottanta grazie a una generazione di giovani che ora non lo sono più

Per molti la frattura più ragionevole per cambiare ed evolversi sarà il ricambio generazionale. Questo perché in Italia il fenomeno della piccola editoria è un fenomeno decisamente generazionale, esploso negli anni Ottanta grazie a una generazione di venti-trentenni che ora si affacciano ai cinquanta-sessanta anni. Il passaggio generazionale è complicato, anche per i più grandi, perché non è per niente facile creare editori. Quando non c’è il passaggio generazionale diciamo genetico, familiare, il passaggio è ancora più complesso per tutti. E noi ci troviamo in una fase particolare, in cui, in coincidenza della crisi più grossa che il settore abbia mai attraversato — e dovuta a una serie di fenomeni diversi, economici, culturali e tecnologici — ci troviamo anche ad assistere a un necessario cambio generazionale che sarà molto delicato e, io credo, molto difficile. La consapevolezza della necessità del cambiamento c’è, ma la possibilità effettiva di portarlo a compimento è più difficile, per una questione di energie, di idee, di reattività, di risorse. Non è solo una questione di esperienza, né di volontà.

Qual è la sua visione?
Per dirla con una metafora, io non credo che un contadino non possa fregarsene dell’ecologia e pensare soltanto ai suoi prodotti e alla sua terra, esattamente come un editore in questo momento non credo che possa fregarsene della salute complessiva del mondo editoriale, ma dovrebbe preoccuparsi di ognuna delle tre parti di cui abbiamo parlato prima: deve imparare dagli innovatori, deve ascoltare chi non ce la fa più ed è in seria difficoltà e deve interagire con chi resiste per cercare insieme delle soluzioni.

Passiamo a Pietro Biancardi, editore di Iperborea, uno dei più importanti tra i piccoli e medi editori italiani, specializzato in letteratura dei paesi del Nord Europa, che anche se non può che condividere l’allarme per la situazione — che resta grave — è testimone diretto di quella parte di piccola e media editoria che non molla, e anzi, rilancia.

Qual è la situazione dal vostro punto di vista?
L’editoria in Italia, come tutto il paese, viene da sei sette anni di recessione, e, nel giro degli ultimi 4 anni, ha perso una cosa come il 25 per cento del proprio mercato. È una crisi che, per come è fatto il mondo editoriale, abituato a lavorare con dei margini bassissimi, si sta sentendo pesantemente. Non pochi editori hanno chiuso, qualcun altro — soprattutto i grandi editori — ha ridotto l’organico, qualcuno però resiste.

Quindi nel complesso non ci sono solo notizie negative?

Un lettore forte prima andava in libreria e comprava dieci libri, ora ne compra cinque, e magari gli altri cinque li prende in prestito in biblioteca

Be’, per esempio si deve stare attenti a distinguere i dati sulla lettura da quelli sull’acquisto di libri, che non sono esattamente la stessa cosa. Sull’acquisto di libri il calo è generalizzato, ma come lettura, per esempio, la fascia dei lettori forti si mantiene stabile. Questo per esempio è un dato positivo, perché dimostra come il calo delle vendite non sia un dato strutturale che dimostra che la stagione del libro stia tramontando, ma che sia piuttosto un dato congiunturale, ovvero che, semplicemente, i lettori spendono meno perché hanno meno soldi o hanno la percezione di avere meno soldi. Quindi, banalmente, un lettore forte prima andava in libreria e comprava dieci libri, ora ne compra cinque, e magari gli altri cinque li prende in prestito in biblioteca. Quindi, se ha cambiato effettivamente al ribasso le sue abitudini di acquisto, non ha cambiato le sue abitudini di consumo. Risparmia, ma continua a leggere a tassi non troppo diversi da prima. Questo comporta che, per editori che hanno saputo costruirsi una nicchia di riferimento, che fanno libri di qualità e che hanno le energie per costruire una cultura del libro intorno ai propri titoli, le cose non sono così tragiche. Diverso è il caso di chi invece non ha un catalogo forte, ma che punta molto sui fenomeni editoriali, sui lettori deboli o occasionali.

Cosa succederà con l’arrivo — se effettivamente l’affare si chiuderà — del colosso Mondazzoli?
Anche qui, ricordiamoci che il mercato non è lo stesso per tutti. Noi di Iperborea, per esempio, non siamo toccati così tanto da questi sommovimenti perché siamo completamente indipendenti: lo siamo come proprietà, prima di tutto, ma lo siamo anche come distribuzione, visto che ci appoggiamo ad Alii, che è il più grande dei piccoli distributori.

L’affare Mondazzoli interesserà e influenzerà negativamente soprattutto il mondo degli autori e degli agenti, non quello dei lettori

La fusione tra Mondadori e Rizzoli Libri non so se avrà ripercussioni sul lettore. Io credo che questa fusione interesserà e influenzerà negativamente soprattutto il mondo degli autori e degli agenti, la cui possibilità contrattuale sarà diminuita dal fatto che la creatura “Mondazzoli” li priverà della possibilità di fare sponda tra i due editori più grossi e, di conseguenza, tenere alte le cifre di contrattazione dei contratti e degli anticipi. Chi sicuramente può essere penalizzato da queste due fusioni sono le librerie indipendenti.

Per editori come noi in realtà credo che non ci siano grossi pericoli. Per fare una metafora, è come se il mondo dell’editoria in generale sia un oceano che in questo momento è molto agitato e i grandi gruppi che ci navigano ne soffrono. I piccoli, invece, o almeno, alcuni piccoli — quelli che, come dicevamo prima si sono costruiti una nicchia di riferimento — è come se navigassero nelle acque più calme di qualche insenatura, dove il marasma che succede fuori si sente, ma non pregiudica la sopravvivenza.

Quindi siete ottimisti?

La vera catastrofe in Italia è a monte dell’editoria, è addirittura l’alfabetizzazione: il 70 per cento degli italiani non capisce un testo complesso

Su quel che riguarda il nostro campo da gioco siamo preoccupati, ma restiamo ottimisti. In realtà il vero punto allarmante per l’Italia credo sia ancora più a monte dell’editoria, è addirittura l’alfabetizzazione. Siamo uno dei pochi paesi europei che vive un fenomeno di analfabetizzazione di ritorno: un dato allarmante di qualche anno fa è quello che dice che circa il 70 per cento degli italiani non è dotato del livello minimo di comprensione quando si trova di fronte a un testo complesso. Ora, se la maggior parte della cittadinanza ha difficoltà con una frase che abbia più di una subordinata, capiamo bene che il problema è molto molto grosso, e che non riguarda nemmeno più il mercato editoriale. A questo dato allarmante se ne somma poi un altro, questo sì che riguarda noi che i libri li facciamo: ovvero che in Italia solo 4 persone su 10 nell’ultimo anno hanno letto almeno un libro. In altri paesi europei questi dati sono invertiti, in Finlandia sono 8 su dieci, in Germania sono 7 su dieci. Questa è la vera emergenza per il nostro paese. E il discorso va ben oltre la letteratura, perché poi si riflette su tutto il resto. Come può un paese democratico come l’Italia avere una cittadinanza che si informa soltanto con la televisione e, al limite, con Facebook, e che non legge libri, non legge giornali e ha difficoltà a capire una frase che abbia delle subordinate? Mi sembra che questo sia un problema addirittura più che culturale, è proprio un problema di funzionamento democratico. Ora non parlo da editore o da amante della letteratura, ma da cittadino italiano e secondo me la vera emergenza, la vera bomba esplosa da tempo in questo paese è questa e sono anni che ci diciamo che bisogna fare qualcosa, ma ancora abbiamo intorno le macerie.

Quali sono i segnali che vi rincuorano?

Il primo trimestre del 2015 è stato il miglior primo trimestre della storia di Iperborea, ovvero degli ultimi 28 anni

Non sono tanti, ma ci sono e sono solidi. Il primo è la ricchezza del panorama degli editori indipendenti italiani, che al di là della crisi e al di là della congiuntura economica sfavorevole, stanno resistendo e, in qualche caso, addirittura crescendo grazie a idee, energie e voglia di creare realtà che sta avendo qualche effetto positivo. Penso, da ultimo, all’edizione numero zero di Book Pride, che, pur se perfettibile, ha dato segnali positivi ben al di là delle attese. Il panorama dell’editoria indipendente italiano è sul serio unico. Io non vedo in altri paesi europei un panorama indipendente di qualità e bibliodiversità così ampio — in Italia siamo al 40 per cento, in Inghilterra credo che non superi il 10 — e questo, se pensiamo che il mercato si sta restringendo da anni, è un dato che non si può ignorare ed è indice di vitalità. Anche solo sapere che una parte di questo panorama editoriali abbia resistito a un periodo di sei sette anni di crisi feroce come quello che abbiamo vissuto è un dato che ci parla di una certa solidità, creatività, voglia, ma soprattutto capacità di non mollare e anzi, di continuare a crescere. E poi, c’è un altro fattore di ottimismo che, almeno come Iperborea, ci dà molto da sperare — anche se tocco ferro e legno, ovviamente — ed è un risultato che forse ti sorprenderà: il primo trimestre del 2015 è stato il miglior primo trimestre della storia di Iperborea, ovvero degli ultimi 28 anni. Al di là di tutte le cause e concause che hanno portato a questo risultato, direi quindi che c’è ancora modo di essere ottimisti.

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