Roma ospita il 5 maggio la manifestazione principale dello sciopero indetto contro la riforma della scuola, quella Buona Scuola che dovrebbe risolvere il problema educativo del paese e traghettare la nostra economia verso un futuro radiante. A questa panacea educativa di Palazzo Chigi si contrappone la piazza, che vede la riforma come un ennesimo attentato alla libertà della scuola pubblica (del resto, negli ultimi vent’anni non c’è riforma della scuola che abbia incontrato il favore della piazza). Salvezza o disastro? Probabilmente nessuna delle due, piuttosto una zona grigia fra chi vuole un cambiamento necessariamente pirotecnico, e chi al cambiamento è piuttosto restio.
La proposta (e la protesta) si struttura attorno a tre temi principali: le assunzioni a livello nazionale, la gestione dei singoli istituti e il sistema di finanziamenti. Le assunzioni, secondo il più recente annuncio del ministro dell’Istruzione Stefania Giannini dopo l’approvazione del disegno di legge da parte del consiglio dei ministri, dovrebbero attestarsi sopra le 100mila e sono previste per settembre 2015. Si attingerà per il 90 per cento dagli iscritti alle graduatorie a esaurimento, e per il 10 per cento dai vincitori – non ancora assunti – dello scorso concorso a cattedre (sotto il ministro Profumo, nel 2012). Negli ultimi anni le assunzioni avvenivano nello stesso modo, ma con una composizione percentuale diversa. Passato questo piano assunzioni straordinario, che mira appunto a svuotare o quasi le graduatorie a esaurimento, si procederà solamente tramite concorso.
Mentre da un lato esiste il rischio di non rientrare nelle tempistiche burocratiche per assumere a settembre 2015 (per cui viene invocato, da alcune opposizioni, il decreto legge), dall’altra la piazza lamenta un’esclusione dal piano degli idonei (ma non vincitori) del concorso 2012, e del personale non-docente. Nel primo caso la mancanza verrà auspicabilmente assorbita negli anni a venire (il governo dovrebbe bandire quest’anno un nuovo concorso da 40.000 posti per il triennio 2016-2019), la seconda è invece più grave. Il personale non-docente, oltre ad avere dignità lavorativa pari a quella del docente, riveste funzioni non sostituibili altrimenti; considerato anche il potenziamento dell’offerta formativa ed il ruolo per la scuola di aggregatore sociale, a cui ambisce la riforma, l’inizio di una stabilizzazione per i circa 15.000 precari non-docenti sembra necessario.
Il secondo tema, quello della gestione scolastica, è strettamente legato al primo: il disegno di legge originario prevede infatti un trasferimento massiccio di poteri al preside, inclusa una più grande libertà nella composizione del personale. Il preside-sindaco è responsabile per la definizione del piano triennale per l’offerta formativa (che contiene tutti gli aspetti didattici, organizzativi e finanziari relativi all’istituto), per la scelta dei docenti (all’interno degli albi territoriali contenenti gli assunti di cui al paragrafo precedente), per la valutazione dei docenti e per la conseguente assegnazione del bonus di merito agli stessi. Questo forte accentramento è visto come un’aziendalizzazione della scuola ed è diventato il simbolo delle proteste, che difendono invece il sistema attuale, dove i pesi sono più bilanciati.
La ripartizione di potere è decisamente asimmetrica: quello che la riforma assegna al preside soltanto dovrebbe essere prerogativa di un consiglio che tiene conto anche del personale docente (e non), degli studenti e dei loro genitori
Il tutto si inserisce in un’idea di scuola più autonoma, di maggiore decentralizzazione gestionale a livello di istituto, cosicché le singole specificità e necessità possano essere soddisfatte meglio e più rapidamente. Il principio di autonomia rappresenta una svolta importante nell’aumentare l’efficacia delle risorse, di tutti i tipi, impiegate nella scuola; una maggiore libertà nel piano dell’offerta formativa, nella scelta dei docenti e nella maniera di condurre la didattica sarebbe quindi funzionale al raggiungimento di questo obiettivo.
La ripartizione di potere proposta del disegno di legge è però, come sottolineato dalla piazza, decisamente asimmetrica, priva di strumenti per mitigare il disequilibrio. Sarebbe ideale invece, come proposto da Guido Tabellini e Andrea Ichino nel libro Liberiamo la scuola (2013), che fosse dato più spazio e peso a tutti gli attori che fanno parte del complesso scuola, all’interno di questo stesso piano di decentralizzazione. Quello che la riforma assegna al preside soltanto dovrebbe essere prerogativa di un consiglio che tiene conto anche del personale docente (e non), degli studenti e dei loro genitori. Questo perché una buona scuola è veramente patrimonio di tutti, e tutti (con i dovuti sistemi di rappresentanza) devono essere coinvolti. Per lo stesso principio con cui si vuole decentralizzare il potere decisionale a livello di istituto (la maggiore consapevolezza che la singola scuola ha delle sue necessità), si deve rendere forte e diretta la partecipazione di chi ha una consapevolezza ancora superiore a quella del preside, cioè i soggetti (studenti, genitori e personale), che vivono la scuola quotidianamente. La speranza, in seguito alle aperture del governo nei giorni scorsi, è che gli emendamenti a venire possano muovere la riforma in questa direzione.
Parallelamente, altre critiche riguardano l’adozione di valutazioni e di un criterio di merito fra gli insegnanti. Queste due parole, valutazione e merito, sembrano acquisire solamente connotazioni negative quando associate ai docenti. Eppure, fintanto che una simmetria di potere è assicurata, garantendo cioè che la valutazione e la decisione su un eventuale premio non siano nelle mani del solo preside, ma di un consiglio pluralistico, un tale sistema concorre al miglioramento continuo e dinamico dell’istituzione. Come sottolinea proprio un insegnante in questo articolo, esistono molti ottimi educatori, assieme a tanti meno ottimi, e ad alcuni pessimi; che si possa essere valutati, e che la valutazione abbia delle conseguenze, vuol dire accettare le legittime responsabilità connesse alla professione.
I finanziamenti privati potrebbero essere la soluzione alla mancanza di risorse, ma dovrebbe essere richiesta esplicitamente, nella riforma, una garanzia di estraneità totale dei soggetti donatori alla gestione dell’istituto
L’ultimo punto di polemica, infine, riguarda le modalità di finanziamento. La riforma comprende due possibilità per contributi privati: la destinazione, a una specifica scuola, del 5 per mille dalla dichiarazione dei redditi, e la donazione, di entità non definita, a fronte di generosi crediti d’imposta (65% nel 2015 e nel 2016, 50% successivamente). In questo caso i dubbi riguardano da una parte l’influenza che, dopo una donazione ingente, un privato potrebbe avere sull’istituto, dall’altra il rischio che il divario fra scuole in diversi contesti sociali, già esistente, cresca esponenzialmente. Le corrispondenti misure-argine, previste dal disegno di legge, sono effettivamente deboli: le scuole sono obbligate a informare il ministero e a pubblicare sul web chi le finanzia e qual è l’ammontare, ma questo non evita necessariamente ingerenze private nella gestione della scuola; allo stesso tempo, per il 5 per mille, è presente una quota perequativa del 10 per cento a favore delle istituzioni poste in zone a basso reddito, ma questo implica una redistribuzione molto limitata. I finanziamenti privati potrebbero essere la soluzione alla mancanza cronica di risorse della scuola, ciò nonostante è giusto temerne le conseguenze e per questo dovrebbe essere richiesta esplicitamente, nella riforma, una garanzia di estraneità totale dei soggetti donatori alla gestione dell’istituto. Allo stesso tempo, la quota perequativa dovrebbe crescere ad una percentuale più alta ed essere estesa alle donazioni, così che possa innestarsi un sistema di redistribuzione significativo ed efficace.
L’idea di base della riforma, rendere le scuole più autonome e su misura per le realtà locali di cui fanno parte, ha molto potenziale per rilanciare, finalmente, il sistema educativo italiano. Per come è stato presentato, però, l’attuale disegno di legge contiene lacune importanti, che mettono a repentaglio l’indipendenza di insegnanti e istituti, squilibrando la distribuzione di poteri e responsabilità. L’opposizione alla riforma, concretizzata nello sciopero di oggi, può avere un ruolo fondamentale nel correggere il tiro, se assumerà un atteggiamento di critica decisa ma costruttiva. È necessario tuttavia andare oltre i dogmi ideologici e l’atavico, malsano, amore per l’immobilismo che sembra affliggere la vecchia (buona o meno) scuola.