Canova: «Checco Zalone è il parafulmine dell’idiozia italiana»

Secondo il critico cinematografico Gianni Canova, che ha dedicato a Zalone un pamphlet in uscita nelle librerie intitolato Quo Chi?, il comico pugliese "offre anche al più cretino degli spettatori la possibilità di sentirsi meno cretino di lui", è questo il segreto del suo successo

Ci sono dei momenti, radi ma a ben vedere abbastanza continui nella storia del nostro paese, in cui praticamente ognuno dei 60 milioni di abitanti che lo compongono si sente in dovere di esternare la propria opinione, quasi sempre macchiata di quell’assolutismo e di quella irriducibilità tipica delle verità assolute.

Il caso tipico è rappresentato dai Mondiali di calcio, quel mese scarso ogni quattro anni in cui tutti noi ci trasformiamo in allenatori espertissimi e pontifichiamo su esigenze tattiche, critichiamo il peso degli allenamenti a cui sono sottoposti i nostri campioni e sosteniamo che non far scendere in campo il tal giocatore denoti la più completa ignoranza del mondo del calcio dell’unico dei 60 milioni di italiani che, sul malgrado, l’allenatore della Nazionale lo sta facendo davvero.

Un caso più recente, che non c’entra con il calcio e che forse è ancora più imponente di improvvisa e diffusa scienza infusa, è stata la proiezione in quasi tutte le sale del paese di Quo Vado? l’ultimo film con Checco Zalone. Nel giro di pochi giorni tutti sono diventati critici cinematografici, e tutti avevano da dire qualcosa sul fenomeno.

«C’è stato, come troppo spesso in questo paese, una divisione in fazioni, in tifoserie, per adesioni aprioristiche e di rado razionalmente argomentate». A parlare è Gianni Canova, uno dei più autorevoli critici cinematografici italiani, giornalista, scrittore e preside della facoltà di Comunicazione, Relazioni Pubbliche e Pubblicità dello IULM di Milano, raggiunto per telefono da Linkiesta.

«Questo perché in Italia ci si schiera, si fa il tifo», continua Canova, che sta per uscire in libreria, il 3 marzo, con Quo chi? Di cosa ridiamo quando ridiamo di Checco Zalone. «È successo quel che succede con tutti i fenomeni imponenti a livello sociologico in questo paese: le varie tifoserie cercano di tirarselo dalla proprio parte. È come al calciomercato, ogni squadra cerca di comprare l’attaccante più forte. E quindi parte il teatrino su È di destra o di sinistra? Hanno provato anche a dargli del grillino perché aveva detto che non andava a Sanremo perché sarebbe stato uno spreco di soldi pubblici…»

Mi piace molto che tutti abbiano avuto qualcosa da dire sul caso Zalone. Dimostra che è un fenomeno vivo. Quello che mi piace meno è che direttori di giornali e opinionisti pretendano di intervenire anche su di lui.


Gianni Canova

Cosa è mancato nel dibattito?
Un approfondimento vero, un tentativo serio di affrontare il fenomeno. Certo, c’è anche chi ha tentato di farlo, ma ha fatto fatica a non procedere se non per negazioni: non è Totò, non è Troisi, non è Fantozzi e via dicendo. Facendo sempre fatica a dire chi è, a questo punto, visto che giustamente non è è Totò, non è Troisi, non è Fantozzi. Per i casi della vita ho avuto modo di conoscere Luca Medici e vedere come lavora, discutendo a lungo con lui e Gennaro Nunziante di cinema, di film, ma anche di Italia, di politica e di società. Per questo ho voluto scrivere questo libro, per cercare di aggiungere qualcosa, cercando di capire perché contemporaneamente in tutta Italia una decina di milioni di italiani — una cifra enorme per il cinema italiano — per due o tre settimane si sono ritrovati in questo personaggio indubbiamente anomalo, almeno per il cinema italiano.

Prima ha parlato di un procedere per negazioni nel parlare di Zalone. Come dobbiamo leggere questa difficoltà di interpretazione da parte della critica?
Attenzione, su Checco Zalone, come dimostra la bibliografia che ho messo in fondo al mio libro, si sono mossi tutti, non soltanto i critici cinematografici. Pensa a scrittori come Nicola Lagioia o direttori di testata come Marco Travaglio, opinionisti che mai si sono occupati di cinema come Severgnini. Si tratta di personaggi che non vengono dalla critica cinematografica, ma che di fronte a un fenomeno così rilevante a livello sociologico, pretendono di essere loro ad avere l’ultima parola, ritenendo forse i critici cinematografici inadeguati a ricoprire il proprio ruolo.

Crede che i critici siano stati adeguati?
No, effettivamente non hanno tutti i torti, perché non mi sembra che, a parte quale rara eccezione — mi vengono in mente i contributi di Andrea Minus, Valerio Caprara o Fabio Ferzetti, per esempio — la critica cinematografica abbia fatto molti sforzi per illuminare il fenomeno. Questo dividersi in tifoserie è dovuto anche a questi giornalisti tuttologi, ma non solo.

Ovvero?
La presunzione di molti intellettuali e di molti giornalisti italiani è stata la malcelata pretesa di essere ognuno il solo e unico in grado di capire, di infilzare con la lancia acuminata del proprio sistema concettuale un tutto Checco, infinitamente Checco e per sempre Checco. Spero di non aver dato la medesima impressione con il mio libro, non era la mia intenzione e, se l’avessi fatto, chiedo anticipatamente scusa al lettore. In ogni caso, mi piace molto che tutti abbiano avuto qualcosa da dire sul caso Zalone. Dimostra che è un fenomeno vivo. Quello che mi piace meno è che direttori di giornali e opinionisti pretendano di intervenire anche su di lui. Il bello di Zalone è che è come il calcio: tutti possono avere una propria visione. E quando succede che un fenomeno popolare come Zalone assume queste dimensioni vuol dire che ha funzionato.

Qual è il compito degli intellettuali in un contesto di opinionismo diffuso come questo?
Il compito degli intellettuali sarebbe quello di cercare di ragionare su questi fenomeni socialmente così rilevanti, ma ascoltando tutto quello che viene prodotto, provando a ricondurre il tutto a una ipotesi di interpretazione. Quello doveva essere il baricentro della discussione a livello intellettuale, una discussione che doveva essere in grado di raffigurare la diatriba, senza essere la diatriba. Dagli intellettuali avremmo avuto bisogno dello sforzo della sintesi sul senso dell’intera conversazione, non dell’accapiglio sul senso di ogni singolo intervento. Questo è quello che dovrebbe distinguere l’intellettuale di professione dal semplice commentatore occasionale che posta su Facebook o su Twitter la sua opinione.

Zalone ha prodotto e portato avanti un modello di comicità orizzontale che scardina i modelli di comicità gerarchica e verticale che hanno dominato in Italia negli ultimi vent’anni.


Gianni Canova

Il titolo di un capitolo del suo libro è “Non è Totò. Non è Troisi. Non è Fantozzi. Chi è?”. Chi è Checco Zalone? E perché ha avuto così presa sugli italiani?
Provo a riassumere una delle tesi del libro. La mia impressione è che Checco Zalone abbia avuto quella condivisione con gli italiani perché in questo momento storico sociale e politico, Zalone ha prodotto e portato avanti un modello di comicità orizzontale che scardina i modelli di comicità gerarchica e verticale che hanno dominato in Italia negli ultimi vent’anni.

Quali sono questi due modelli?
Le due forme del comico che hanno dominato l’Italia sono stati la barzelletta e l’invettiva. E infatti, non a caso, entrambi hanno avuto come modelli due uomini non politici, ma di potere. Berlusconi per la barzelletta e Grillo per la politica.

Come funzionano?
In maniera verticale. Io sono un mcluhaniano, ovvero credo che il mezzo sia il messaggio, cioè credo che il vero messaggio sia quello che deriva dalla relazione comunicazionale che innesca tra il mittente e il destinatario.

Mi può spiegare meglio?
Certo, quando dico “Adesso vi racconto una barzelletta” sottintendo un rapporto univoco dall’alto al basso: parlo io e ridete voi, ma prima state zitti perché non si interrompe una barzelletta. L’ordine gerarchico è stabilito. E volendo parlarne nei termini di una etologia umana, diremmo che è un ordine di imbeccata. Io al di sopra, voi al di sotto. La stessa cosa succede per l’invettiva satirica: io mi alzo al di sopra del mondo, ho capito il mondo e lo disprezzo, inveisco contro tutto e tutti ma me ne chiamo fuori, perché io sto al di sopra.

E Checco?
Checco no, lui applica un modello di comicità completamente diverso, perché la sua comicità non è verticale, è orizzontale. Per ridere del mondo, Checco deve prima di tutto ridere di se stesso. Consapevole che soltanto irridendo se stesso può irridere il mondo di cui fa parte. Ma lui non è superiore, non se ne chiama fuori. È questo essere dentro il mondo che egli stesso deride, ridendo anche con quelli che ridono di lui — che non ha caso è una delle gag comiche preferite da Checco Zalone — fa sì che il suo modello di comicità sia allineato con le forme di comunicazione 2.0. Mentre le forme precedenti sono in qualche modo forme arcaiche di comunicazione, che sono legate a un’altra epoca storica.

Questa orizzontalità tipica di Zalone è una novità o l’ha presa da un repertorio che già esisteva?
È chiaro che ci sono illustri precedenti. Totò e Fantozzi in fondo facevano la stessa cosa, Fantozzi prendeva in giro l’organizzazione sociale, aziendale e familiare dell’Italia degli anni Settanta facendo di se stesso e per tutto il proprio mondo una maschera grottesca. Lo stesso si può dire di Totò.

Zalone funziona grazie alla consapevolezza ironica di rappresentare un mondo irresistibilmente ridicolo, un ingrediente, la consapevolezza, che manca assolutamente nei cinepanettoni.


Gianni Canova

E allora qual è la differenza?
La differenza è che Checco Zalone non è grottesco. Non opera per deformazioni espressioniste sul proprio corpo o sul proprio milieu sociale. Pensi a come era grottescamente rappresentata la vita di Fantozzi, la casa di Fantozzi, i colleghi di Fantozzi, la famiglia di Fantozzi, con questa bruttezza disarmante e caricata che arrivava da ogni parte. Il mondo di Zalone non è così, è un mondo perbenino, elegantino, carino — vien da dire, usando orribili diminutivi — un mondo che lui stesso rappresenta in scala uno a uno con il proprio corpo, le proprie posture, il proprio abbigliamento e il proprio linguaggio. È l’impiegato delle poste, vestito mediamente, normalmente. Non c’è la deformazione grottesca, ma c’è la stessa volontà di praticare una forma di comicità orizzontale — di modelli delle grandi maschere della comicità italiana del Novecento che abbiamo citato — che nel suo caso funziona anche grazie alla consapevolezza ironica di rappresentare un mondo irresistibilmente ridicolo, un ingrediente, la consapevolezza, che manca assolutamente nei cinepanettoni, per esempio.

Le faccio una domanda provocatoria: non è che Zalone non ha più più bisogno di deformare il mondo e se stesso perché ormai, a 40 anni di distanza da Fantozzi, siamo noi ad essere ormai abbastanza grotteschi da non avere bisogno di filtri?
È una bella osservazione su cui varrebbe la pena di riflettere. Però attenzione, il grottesco ha varie modalità di rappresentazione e anche nel cinema italiano ne abbiamo avuti diversi esempi. Pensi al Volonté di Un cittadino al di sopra di ogni sospetto, che è un grottesco fatto per iperboli e esagerazioni, e ottenuto anche grazie alla reazione tra tragico e comico che porta a una specie di raccapriccio. Oppure un altro esempio, quel grottesco che opera sulla dimensione del comico puro e lo spinge verso la deformazione dei corpi, pensi al cinema di Ciprì e Maresco, o anche a un film come Brutti, sporchi e cattivi, di un grande maestro da poco scomparso come Ettore Scola, un film meraviglioso con cui Scola, seppur progressista, non teme di rappresentare il sottoproletariato in tutta la sua volgarità, promiscuità, bruttezza, rapacità. Senza il buonismo che avrebbe oggi la sinistra, per cui i poveri ora sono intoccabili, puri, casti e santi. Scola, che è una figura importante della sinistra italiana, ci mostra che la povertà può essere brutta sporca e cattiva, e li sottopone a quel processo di deformazione strepitosa a cui si sottopone Nino Manfredi in una delle sue interpretazioni più memorabili.

Grandissimo Manfredi…
Ecco, forse se dovessi citare un comico delle generazioni precedenti di cui in qualche modo Checco è debitore citerei proprio Manfredi. Evidentemente Zalone non ha la spavalderia un po’ cialtrona di Gassmann, non ha l’ironia feroce di Tognazzi, non ha nemmeno l’arte di arrangiarsi di Sordi, è piuttosto l’indolenza e l’astuzia di Nino Manfredi, che tra tutti questi è quello più “medio”. E la “medietà” è un’altra delle caratteristiche peculiari di Checco Zalone. Sa, Luca Medici è una persona di sottile intelligenza, di sottile cultura, un raffinato jazzista e pianista, è uno che sa benissimo far finta di essere scemo.

Checco offre anche al più cretino degli spettatori la possibilità di sentirsi meno cretino di lui, è il parafulmine dell’idiozia. Se la prende tutta lui, liberando la società dal timore di essere idiota, e in questo rito collettivo di purificazione dall’idiozia lui è davvero il migliore e credo che sia proprio questo uno dei motivi del suo grande successo


Gianni Canova

È per questo che funziona?
Io credo di sì, perché mettendo in scena la propria idiozia libera il proprio pubblico dal timore di essere lui, il pubblico, l’idiota. L’esempio classico è quando in un suo film Checco parla con dei musulmani e chiede loro “Ma abitate in Islam?” e loro si mettono a ridere, insieme agli spettatori. Ma è proprio quello il punto, Checco offre anche al più cretino degli spettatori la possibilità di sentirsi meno cretino di lui, è il parafulmine dell’idiozia. Se la prende tutta lui, liberando la società dal timore di essere idiota, e in questo rito collettivo di purificazione dall’idiozia lui è davvero il migliore e credo che sia proprio questo uno dei motivi del suo grande successo.

Oltrepassando il caso Zalone e parlando di cinema in generale. Esiste ancora una differenza tra cinema “alto” e cinema “basso”, come una serie A e una serie B? È mai esistita? A cosa serviva? Perché l’abbiamo superata?
Secondo me non è mai esistita. Secondo molti invece è sempre esistita ed esiste tutt’ora. Guardi anche soltanto a livello istituzionale: i grandi festival del cinema europeo, come Venezia, Berlino e Cannes, selezionano soltanto quello che ritengono essere il cinema alto, quello d’autore, quello sperimentale, mentre non selezionano quasi mai cinema di genere, che sia comico o horror.

Perché?
Semplicemente perché ritengono che il cinema di genere sia un cinema di serie B. Io ritengo che le cose non stiano così, ma che alcuni dei più grandi maestri della storia del cinema abbiano frequentato a i generi, da Billy Wilder a Ernest Lubitsch, o Kubrick, che non ha fatto altro che sperimentare in ogni suo film un genere, o molti altri.

A cosa serve una distinzione del genere?
Sono distinzioni molto discutibili, che spesso derivano da una visione molto snobistica e aristocratica della cultura che io non condivido affatto. Trovo anzi che la grandezza e la bellezza del cinema è stata la prima tra le grandi arti a praticare una sistematica e deliberata contaminazione e confusione fra i livelli cosiddetti alti e quelli cosiddetti bassi. A me piace proprio per questo, e rivendico con orgoglio il fatto che amo sia il cinema di Kim Ki-duk sia quello di Zalone, adoro Fellini ma anche le commedie di Franco Franchi e Ciccio Ingrassia.

Viviamo in un’epoca in cui i linguaggi si contaminano! E ben vengano queste contaminazioni!


Gianni Canova

Posso chiederle che cosa ne pensa delle posizioni prese da critici decani come Fofi e Mereghetti, rispettivamente su Tarantino e Miller, che hanno sparato ad alzo zero e anche con toni un po’ irrisori dichiarando quasi questi film non sono cinema?
Beati loro che sanno cosa è il cinema e cosa non lo è. Io sono poco più giovane di loro, e a questo punto spero di arrivare alla loro età avendo capito cosa è il cinema. A parte gli scherzi, resto sempre un po’ basito quando qualcuno afferma apoditticamente che una cosa è cinema e un’altra no. Posso accettare un “Mi piace/Non mi piace”, ma la certezza integralista della critica di vedere il proprio personale gusto come un valore oggettivo e assoluto sia uno dei mali che ha fatto sì che la critica abbia perso la sua autorevolezza e che non venga più ascoltata quando parla di fenomeni come Zalone, lasciando il campo libero ai vari Nicola Lagioia, Marco Travaglio o Beppe Severgnini. Per quanto riguarda il meraviglioso Mad Max di Miller le dico soltanto che il primo saggio di cinema che ho scritto, circa 35 anni fa, era dedicato proprio a Mad Max sostenendo che quello era il cinema. Ora, che oggi arrivi Mereghetti a dire che non lo è mi lascia un po’ indifferente.

Nel caso di Mad Max Mereghetti aveva scritto che non era cinema, ma un videogioco…
Eh eh eh, come se fosse possibile tracciare dei confini. Anche l’ultimo romanzo di Ammaniti è un videogioco. Ma è questo il bello, viviamo in un’epoca in cui i linguaggi si contaminano! E ben vengano queste contaminazioni!

X