Grazie ai sacrifici e ai risparmi di una intera generazione di italiani, quella del Dopoguerra, il “miracolo economico” è stato possibile: una crescita guidata principalmente dall’accumulazione e dall’investimento in capitale fisico, che tuttavia non rende più quanto un tempo. Se pensiamo a cosa significhi competere nell’arena globale del mondo di oggi, dobbiamo tenere presente che due fattori fondamentali, differenti dal capitale fisico, influenzano la competitività di un Paese: il suo capitale umano e il suo capitale civico. L’Italia è drammaticamente povera di entrambi. I recenti dati Eurostat sugli occupati divisi per titolo di studio ci informano che solo il 53% dei laureati e il 30% dei diplomati in Italia risultano occupati a tre anni dal titolo. In Germania, gli occupati a tre anni dal conseguimento del titolo sono il 93% fra i laureati e il 67% fra i diplomati. C’è poi il capitale civico, ossia quell’ecosistema istituzionale in grado di allocare il capitale umano di un Paese nel modo più efficiente per lo sviluppo economico. In sintesi, l’insieme di un’architettura istituzionale in grado di rispondere con prontezza alle esigenze dei cittadini, un mercato del lavoro efficiente, un sistema sano di competizione nei mercati, una Pubblica amministrazione che facilita la vita a cittadini ed imprese e, più comunemente, un fattore culturale che ponga il principio meritocratico alla base dei processi di selezione.
Perché prima crescevamo ed ora arranchiamo
Che cosa è cambiato dunque, dagli anni Sessanta a oggi e perché allora crescevamo, al contrario di ciò che succede da vent’anni a questa parte? Siamo passati dall’essere una economia in fase di sviluppo, all’essere una grande, fino a qualche tempo fa, economia mondiale: ricca e densamente popolata, ma anche vecchia. È piuttosto semplice passare dalla produzione di patate a quella di automobili (come abbiamo fatto nel Dopoguerra) perché, quando si è ancora lontani dalla frontiera di produzione, sono il capitale fisico e le materie prime a guidare la crescita e l’inefficienza delle istituzioni non rappresenta un ostacolo insormontabile. Molto più complicato risulta competere nella Serie A delle economie, perché quando ci si avvicina alla fatidica frontiera, le istituzioni che regolano l’allocazione delle risorse assumono un’importanza esponenzialmente maggiore nel processo di creazione di un vantaggio competitivo.
L’inefficienza delle nostre istituzioni, intese in senso ampio, è la responsabile della nostra palude
L’inefficienza delle nostre istituzioni, intese in senso ampio, è dunque la responsabile della nostra palude. Un Paese ha due modi per crescere nel lungo periodo: aumentare la propria produttività, o aumentare la propria forza lavoro. Come si vede dai due grafici sotto, la produttività italiana, misurata attraverso l’indice PIL/ora di lavoro, è ferma al palo da vent’anni e verrebbe da chiedersi se non incida in qualche misura su questo dato la nostra povertà di capitale umano e capitale civico prima citata. Importiamo capitale umano a bassa formazione e quindi bassa produttività ed esportiamo capitale umano di alta qualità. Questo accade per fattori in parte congiunturali (la crisi non aiuta), ma anche e soprattutto per fattori strutturali, in primis istituzionali e culturali (povertà di capitale civico). Se non pensiamo di porre le basi della nostra futura crescita esclusivamente su una massiccia immigrazione, dobbiamo chiederci come affrontare l’annosa questione della produttività.
Andare oltre i primi passi
Lo sforzo che sta facendo il governo in questa direzione, con il Jobs Act, la riforma della pubblica amministrazione e le riforme istituzionali, è apprezzabile, ma non sufficiente. Serve ancora una vera e propria revisione della spesa, che permetta di abbassare le tasse, di attrarre imprese innovative e capitale umano di qualità. Serve come il pane anche una riforma del sistema universitario: i dati sull’occupazione di laureati e diplomati sono l’esempio plastico della nostra mancanza sia di capitale umano sia di capitale civico, una mancanza che va assolutamente aggredita. Da questo punto di vista la riforma della scuola (“La Buona Scuola”) rappresenta un passo avanti, uno sforzo importante, ma anch’esso insufficiente, poiché apporta modifiche significative soltanto al sistema scolastico pre-universitario e non agisce sul settore della cosiddetta “educazione terziaria”, quello che invece attrae capitale umano ad alta produttività. Infine, serve ancora un processo di liberalizzazioni incisivo per premiare le virtù di imprenditori e lavoratori capaci di innovare e di competere e per smettere, una volta per tutte, di proteggere ingiustificate rendite di posizione.
Serve come il pane anche una riforma del sistema universitario: i dati sull’occupazione di laureati e diplomati sono l’esempio plastico della nostra mancanza sia di capitale umano sia di capitale civico
Ma serve, oltre a questo, molto altro. È necessaria una trasformazione radicale del nostro sistema produttivo: un sistema produttivo basato su piccole e medie imprese, incapaci di sfruttare la rivoluzione tecnologica, avverse a una sana competizione ed impossibilitate a operare grandi investimenti, date le loro ridotte dimensioni. D’altronde, mettetevi nei panni di un imprenditore italiano negli anni Ottanta: che tipo di incentivi poteva avere ad innovare il proprio prodotto, se, per rimanere nel mercato, vendere e generare profitti, gli bastava aspettare la prossima svalutazione? La verità è che è molto doloroso dover trasformare il proprio sistema produttivo da quello di “cinesi d’Europa”, ciò che eravamo fino a trent’anni fa, a quello di un economia moderna ed avanzata. È un percorso che va però intrapreso, percependo l’urgenza e l’importanza di tale trasformazione. L’alternativa è, purtroppo, una progressivo deterioramento del nostro sistema produttivo.