Sono le 10 e 30 del mattino di martedì 22 marzo. Bruxelles è una città completamente bloccata, come fosse sotto assedio. Circa due ore prima un’esplosione ha distrutto il terminal delle partenze internazionali dell’aeroporto di Zaventem. Poco dopo, un’altra esplosione ha sconquassato il ventre della città, sventrando un vagone della metropolitana poco prima della fermata di Maelbeck, poco lontano dal cuore politico dell’Europa. Non si sa ancora nulla. Le informazioni trapelano, si mescolano alle esagerazioni, ai messaggi emozionati di cordoglio, di paura, di panico. Inizia il solito valzer di cifre, di dichiarazioni, smentite, accuse.
A Milano, nella hall di un piccolo hotel dalle parti di Brera, Jonathan Coe è seduto al tavolo. Sorseggia un bicchier d’acqua e ha gli occhi leggermente lucidi mentre muove veloce il pollice sullo schermo del suo smartphone, scorrendo tra le centinaia di tweet che arrivano da tutto il mondo.
«Che cosa si sa finora?», la prima domanda la fa lui, ma non c’è niente da rispondere, se non quello che in quel momento ripetono tutti. Si sa soltanto che c’è stata un’esplosione in aeroporto, e un’altra in metro. Si parla di una ventina di vittime in tutto per ora. È tutto in aggiornamento. Coe è scosso, come tutti. «Scusami, non so se riuscirò a parlare troppo del mio libro». E infatti non ne parleremo.
Ci siamo svegliati entrambi leggendo su Twitter le terribili notizie che arrivavano da Bruxelles, mischiate alle emozioni della gente di tutta Europa che ha iniziato subito a commentare l’accaduto. Ed è proprio da lì che partiamo.
«La cosa più strana dei social network è che in momenti come questi ti fanno sentire dove realmente sei soltanto fisicamente». Coe risponde lentamente, sorseggiando la sua acqua e riflettendo ad ogni parola. «Sì, solo fisicamente. Perché con la mente siamo altrove. Ora, per esempio, siamo tutti a Bruxelles. Quando accade qualcosa di così triste e sconvolgente, la realtà che abbiamo intorno tende a sfumare, e la realtà sembra sia tutta qua dentro», continua spostando leggermente lo smartphone appoggiato tra di noi, «dentro questa cosa nera che hai appoggiato sul tavolo per registrare».
Ed è una cosa positiva?
Sì, in parte è una cosa positiva, almeno in apparenza, perché è un modo completamente nuovo che abbiamo per sperimentare la realtà, quindi bisogna anche capirne gli esiti. Questo almeno prova, in un certo qual modo, che i social sono in grado di creare empatia e che facilitano la comunicazione tra la gente.
E la parte negativa qual è?
Le informazioni che ci passano davanti da un medium come Twitter o Facebook, ma ormai sempre più spesso anche quelle che vengono pubblicate dai giornali tradizionali, che non fanno altro che riprendere pedissequamente i social, hanno come fonti gli utenti stessi e sono spesso inaffidabili. Il video che hanno diffuso poco fa, per esempio, spacciato come il video dell’esplosione all’aeroporto di Bruxelles, in realtà si è già scoperto essere un video relativo a un’esplosione a Mosca di qualche anno fa.
Colpa di internet o colpa di chi internet lo usa?
È colpa nostra. Internet è uno strumento, chi lo usa siamo noi. Quando in tanti vediamo un contenuto e lo retwittiamo, mettendolo in circolo in maniera massiccia, una mezza verità o una bugia bella e buona si trasforma in verità. È responsabilità nostra ed è sempre peggio. Dobbiamo essere sempre più vigili, dobbiamo controllare e sviluppare un senso critico nuovo, adatto alla velocità e alla complessità della rete. È uno strumento utile, anche se c’è anche chi — una giornalista britannica, in questo caso — pochi minuti dopo la tragedia usa i social per fare propaganda sul fatto che l’Inghilterra dovrebbe lasciare l’Unione Europea perché non è sicuro.
Sta parlando del tweet di Allison Pearson del Telegraph?
Sì, è un tweet orribile, l’avrei trovato orribile anche in un altro contesto, ma a pochi minuti da fatti così terribili credo che sia veramente il sintomo di una follia.
A proposito di follia, il sottotitolo del tuo libro è “Tales that witness madness”. Che cos’è questa follia in cui siamo immersi oggi?
Ci stiamo confrontando con un nemico che è molto difficile da affrontare. Perché questo tipo di terrorismo non sembra avere nessuna intenzione di negoziare. In una situazione del genere, in genere, ti siedi a un tavolo e provi a parlare. Ma non è possibile negoziare se quel tavolo non esiste. E non esiste perché l’ideologia che nutre questo terrorismo è troppo mortifera, troppo negativa. C’è della pazzia dietro l’Isis, e certo, il termine Madness nel sottotitolo del mio libro, letto oggi purtroppo suona tristemente molto appropriato, sebbene quello che è successo a Bruxelles non c’entri nulla con quello che raccontato nel libro. Sai, Numero undici per me è un libro ambizioso, un libro politico, ha dentro tante cose importanti, ma che oggi assumono un valore molto relativo. È triste quando metti un libro a confronto con una realtà del genere, perché ti accorgi che è soltanto un libro. Ma davanti alla follia che abbiamo davanti oggi non c’è altro da aggiungere, direi.
Cambiamo argomento allora. Prima degli attentati avrei voluto chiederle di Jeremy Corbyn, un politico per molti aspetti vecchio, ma che sta avendo presa sui giovani in Inghilterra, come se fosse una novità nel panorama politico. Non è un paradosso?
Certo, è un paradosso. Jeremy Corbyn è un fenomeno politico molto interessante, soprattutto se esaminiamo la reazione che suscita nelle differenti generazioni di inglesi. Le persone della mia generazione, e quelle più vecchie, hanno già visto in passato questo atteggiamento, ci sembra qualcosa di old-school. Ma la maggior parte dei suoi sostenitori sono giovani, sono persone della tua generazione, a cui sembra — come a te — in qualche modo “nuovo”.
A cosa si deve questo appeal sui giovani?
La cosa che affascina di lui, probabilmente è la sua determinazione a ignorare quello che è successo nella tecnica politica degli ultimi vent’anni. Quasi come se non se ne fosse accorto. Ma io sono sicuro che se n’è accorto eccome.
Qual è l’elemento più potente del modo di porsi di Corbyn?
Corbyn ha qualcosa di impressionante, e sono i suoi principi, forti, inattaccabili, a cui è fortemente attaccato. È sopravvissuto alla Thatcher, a Major, a Blair, a Brown, a Cameron. Ha resistito a tutto. È rimasto un socialista labourista degli anni Settanta. Cosa che evidentemente nel 2016 risulta essere una cosa nuova. Le sue proposte, quelle che a noi sembrano così vecchie come la nazionalizzazione delle ferrovie, a voi sembrano soluzioni originali ed efficaci. Il problema è che la maggior parte dei media tradizionali, i quotidiani di carta, l’establishment dell’informazione, le televisioni e le radio sono gestiti da persone della mia generazione e sono molto cinici e duri nello schierarsi contro Jeremy Corbyn. Non so dire se sia lui, programmaticamente, a non voler fare la parte del politico classico, o se semplicemente non sia bravo a farlo. Ma non parla, né si veste, né si atteggia in modo da funzionare bene davanti a una telecamera. Non si interessa ai giornalisti, e i media trovano questo suo atteggiamento quasi come un insulto.
Se guardiamo la storia politica, e non solo la storia degli ultimi 20 anni, l’atteggiamento di Corbyn appare piuttosto normale. Quando è iniziata la dinamica che ha legato così fortemente il linguaggio politico a quello dei media?
Sì, è vero. Le prime avvisaglie di questa strategia probabilmente si sono iniziate a vedere con la signora Thatcher, che a un certo punto ha preso lezioni su come migliorare la sua capacità di parlare in pubblico, imparando a dosare il tono della voce. All’inizio, nei suoi primi discorsi, la sua voce era squillante e alta, mentre man mano ha imparato ad abbassarla, ad essere più suadente. Più maschile direi. È stato grazie al lavoro di specialisti che le hanno insegnato delle tecniche. Ed è stato solo l’inizio di una dinamica — che hai giustamente chiamato mediatizzazione della politica — dinamica che con Blair ha raggiunto l’apice.
Perché Blair?
Perché, se dovessi indicare il momento esatto in cui la politica inglese ha capito quanto erano importanti i media e ha avuto una svolta emozionale, indicherei il giorno della morte di Lady Diana, giorno in cui Tony Blair fu molto molto veloce ad arrivare davanti alle telecamere e a sfruttare l’emotività del momento. Se ci pensi il mostrare emozioni pubblicamente subito dopo la morte della principessa Diana è un comportamento molto poco “british”. In quel momento credo che il rapporto tra politica e emozione sia cambiato molto da quel momento. E credo anche che viviamo ancora sulla scorta di quella tecnica.
Blair è stato il primo politico ad avere una strategia mediatica studiata alla perfezione per manipolare il discorso mediatico. Aveva ufficio stampa potente, degli spin doctor, amici e contatti in ogni media del paese. L’intero sistema era manipolabile. Ora, con l’esplosione dei social media è più complicato manipolarli. O almeno, non si fa più con le amicizie e con il potere. È un periodo storico in cui contano molto le emozioni. Ora viviamo in un’epoca in cui i giornalisti chiedono ai politici “come si sentono”. Il lavoro di molti giornalisti non è più passare informazioni, è diventato creare, gestire e incanalare le emozioni. Le emozioni sono diventate news.
Da questo punto di vista emotivo, crede che ci sia in Corbyn una carica ideale, una fiammella, che la mia generazione ha bisogno di coltivare e che la vostra ha ormai perso?
Forse. In effetti la mia generazione è diventata cinica e fredda. Corbyn invece non è cinico, né freddo. È appassionato. È ovvio che in un momento in cui le vecchie e banali soluzioni politiche sembrano fallire, un discorso come quello di Corbyn può avere presa. Non pensa come gli altri politici inglesi. Non parla come loro. Non si veste come loro. Pensa al di là dei modelli mainstream. E il mainstream politico negli ultimi anni è diventato uno stretto corridoio in cui tutti, dal centro destra al centro sinistra, si stanno omologando. Corbyn prova a parlare fuori da quel coro, a coloro i quali si sentono esclusi da quei discorsi, come la tua generazione.
A proposito di mainstream. Considerando i dati dell’astensione, potremmo facilmente provare che il vero mainstream in realtà è l’assenza di rappresentazione, visto che in quasi tutti i paesi europei il partito vincente è quello dell’astensione. Corbyn, Sanders, e forse altri, possono parlare a questa area grigia?
Probabilmente è quello che sperano di fare. Così però stiamo entrando in un problema tecnico e molto delicato per la vita delle nostre democrazie.
Ovvero?
Il sistema elettorale, che è decisamente imperfetto, e che non riesce più a rappresentare la popolazione e l’opinione pubblica. Credo che in Italia sia uguale, ma in ogni caso, in Inghilterra le elezioni politiche si decidono su poche migliaia di voti, non so i dati precisi, ma credo nell’ordine del 15-20 per cento della popolazione che oscillano ogni volta tra il centro sinistra e il centro destra. Io credo che purtroppo Corbyn non parli a questa gente. È per questo che anche le persone che condividono i suoi discorsi hanno molti dubbi che possa vincere alle elezioni, con queste regole. Ma forse dobbiamo avere una visione più lunga, e probabilmente bisogna rassegnarsi al fatto che non saranno le prossime elezioni quelle che vincerà. Forse servirà perdere due o tre elezioni prima di formare una fetta di opinione pubblica adatta a sostenere queste idee.
Crede che abbiamo ancora tempo di aspettare e perdere il primo round per puntare al secondo o al terzo?
Sì, o almeno, credo che dobbiamo costringerci a pensarlo. In fondo 15 anni nella storia del mondo sono un niente. Però è vero, viviamo in un’epoca che non sa cos’è la pazienza, e Twitter è la figura perfetta. È sempre più difficile avere una visione a lungo termine, un po’ perché ci siamo abituati alla velocità.
In una intervista di qualche mese fa, Robert Fisk mi disse che, durante la seconda guerra mondiale, mentre Londra veniva bombardata e ancora non si sapeva se avrebbe superato l’assedio tedesco, Churchill aveva già pianificato non solo l’invasione del Reich, ma anche la sua gestione dopo la guerra. Perché ora non sappiamo più ragionare così?
Sì, incredibile come ora la politica ragioni su tempi brevi, brevissimi. Ogni tanto neppure da una elezione a un’altra, ma da una conferenza stampa all’altra. Forse i media hanno prodotto questa miopia. La classe politica, quasi tutta, pensa che l’unica cosa che conta sia restare al potere, perché senza potere non sono nulla, il che è vero. Ma anche non avere un programma, o delle convinzioni non porta da nessuna parte. Credo che quello che stiamo scoprendo ora con molti politici in giro per il mondo è che alla lunga, dopo anni di programmi vuoti, non sanno più cosa dire.
Quale speranza dobbiamo coltivare?
Posso solo sperare che vengano fuori degli individui che abbiano la forza di pensare fuori da questi schemi. Hai menzionato Churchill. Bene, abbiamo bisogno di leader di quella statura. Certo, il modo in cui funziona la politica oggi è molto diverso da quello di 70 anni fa, ed è molto improbabile che personaggi del genere riescano a entrare in politica, figuriamoci ad essere eletti. Per fare carriera politica oggi devi fare enormi compromessi fin dall’inizio e, se poi finalmente riesci a fare strada, ormai sei anche tu compromesso. È questo quello che mi impressiona di Jeremy Corbyn, che, al di là dei suoi sbagli, e al di là di posizioni su cui posso essere d’accordo o meno, ha delle convinzioni, e non scende a compromessi anche a costo di sembrare ridicolo. È così strano, ed è per questo che lo accusano di essere incompetente. Ma non è incompetente, è soltanto un politico diverso da quelli a cui ci eravamo abituati. Quindi la vera domanda è: in questa epoca storica, un politico può vincere senza avere i media al suo fianco? Non ne sono così sicuro.
Ok, ma siamo sicuri che i media tradizionali siano ancora i media che contano?
Sì, hai ragione. Questa è un’ottima domanda. E forse dietro alla risposta che daremmo c’è anche la risposta alla domanda sul perché i media tradizionali attaccano in questo modo Corbyn, perché sentono che non hanno potere su di lui, come non hanno alcun potere su di voi. Forse sentono che la fine si avvicina.