Maurizio Crozza dice “Enrico Mentana ha inventato la tv del dolore” e il pubblico si pietrifica, smarrito. “Del suo dolore”, aggiunge dopo qualche secondo di gelo. E tutti ridono, felici che sia stato solo un gioco, che Mentana non sia Barbara D’Urso, che persino prenderlo per il culo sia un ossequio al suo rigore che non ha nulla del calvinismo, di Milano, della Germania, ma ha tutto della vocazione.
Era uno sketch di Crozza – forse l’ultimo uomo da cui una cospicua maggioranza di italiani accetterebbe un’indicazione di voto – dello scorso anno.
“Signore, senza polemica, io sto lavorando dalle 3.40. Tra un’ora inizio la diretta”. Alle sei e mezza del 24 agosto, tre ore dopo il sisma di Accumoli e Amatrice, Mentana, direttore del tg di La7, discute con uno sconosciuto delle centinaia che, ogni giorno e non sempre con toni ragionevoli, interagiscono con lui su Facebook.
Ha abbandonato twitter tre anni fa: spiegò che “se il bar che amate si riempie di ceffi, cambiate bar. O no?” ed è ancora difficile scegliere se ad averla vinta, quella volta, fu lui o il web. Lo stesso uomo capace di dire a Giuliano Ferrara e Marco Travaglio, suoi ospiti a “Bersaglio Mobile” (era il 2012), che gli stavano facendo perdere la scommessa di riuscire a farli parlare civilmente di “qualcosa che è più grande di voi e che riguarda i cittadini di questo paese”, arretrava davanti a haters, troll, stalker e commentatori anonimi che lo ingiuriavano da mattina a sera. Non accettava che fossero anonimi, voleva il duello a viso aperto o comunque ad armi pari: Mentana è uomo d’altri tempi anche se avrà sempre un volto tondo e bambinesco e sembrerà sempre una quaranta-cinquantenne. Come Tom Hanks. E con i capelli ricci di Massimo Ciavarro. Enrico Mentana è Chicco Mentana. Chicco.
Ha abbandonato twitter tre anni fa: spiegò che “se il bar che amate si riempie di ceffi, cambiate bar. O no?” ed è ancora difficile scegliere se ad averla vinta, quella volta, fu lui o il web.
Due giorni fa, però, ha messo a posto le cose. “Lei è un webete”, ha scritto all’ennesimo cretino da tastiera cui, da quando cura personalmente la sua pagina Facebook (“leggo ogni intervento” è scritto sul profilo, insieme a “ho lasciato Twitter”), non si risparmia di rispondere (“Mentana blasta lagggente” è il gruppo Facebook che raccoglie gli scambi memorabili). E sono tutti impazziti, giubilando perché finalmente il direttore aveva trovato l’antidoto. La sintesi perfetta. La sola cosa cui fosse impossibile replicare. Il punto. L’ultima parola. Il benservito agli hater cui si era arreso, a quelli che ogni giorno riempiono di scempiaggini i social network, avvelenano l’opinione pubblica, montano complotti e costringono l’informazione a moltiplicare i propri oneri e a sbugiardare la contro-informazione. Un mestieraccio che o si fa con la passionaccia (così si chiama il libro che ha scritto sul giornalismo, nel 2009, per Rizzoli) o si subisce, cioè non si fa.
In Enrico avvampa una passionaccia così forte che, oltre a fare il tg, le maratone, la radio, i settimanali, ha preso a scrivere su Facebook per dare quel supplemento critico necessario ma non sufficiente a salvare l’informazione, il ragionamento, il buon senso.
Immediatamente dopo il sisma, Mentana ha battagliato contro le tesi proliferate in rete (immigrati che rubano il posto agli sfollati, reale intensità del terremoto contraffatta da istituto di geofisica, protezione civile e media in modo che lo Stato non sia tenuto a rimborsare integralmente i danni), con la tenacia mancata a Umberto Eco, che si era risparmiato la fatica liquidando la questione così: “internet ha dato diritto di parola agli imbecilli”. Umberto Eco non usò mai i social network: prima ancora di temerli, li aborriva. Ma Eco era un accademico, Mentana ha mollato l’università dopo qualche esame, sapendo che non si diventa giornalisti sui manuali. Eco scherniva i tifosi, Mentana è un acceso interista. Donchisciottesco come tutti gli interisti. Mentana non osserva la rete: contribuisce a riempirla. Come Pasolini con la televisione (che fosse un mezzo che non permetteva di dire la verità andò a dirlo in una trasmissione di Enzo Biagi, assumendosene consapevolmente la contraddizione, diventando bugiardo in prima persona), sa bene che dominarla è un’illusione e che il solo dominato è lui.
Jonathan Franzen, scrittore statunitense da sempre in contrasto con la rete (scrive i suoi romanzi in una stanzetta dove ci sono un computer, una finestra e una sedia: no adsl, no wifi), ha detto che l’aspetto dittatoriale di internet sta nel fatto che non possiamo farne a meno. Mentana accetta anche questo: che esista una dittatura di cui non può fare a meno di farsi mezzo, poiché è il solo modo per equilibrarla. Su Wired, ieri, facevano notare che “webete” è una crasi geniale, ma pure che i commentatori da social sono stati allevati dalla televisione, più che da internet. La Stampa si è affrettata a evidenziare che “webete” venne coniato negli anni Novanta per indicare “colui che limita alla navigazione sul web la propria esperienza online”, come se fosse importante. Ma Enrico ha ormai la corona di re del web, anzi dell’internet, come piace dire a chi ci campa sopra, convincendosi di farlo per scopi meramente antropologici. “Fate di webete ciò che volete, ma per me finisce qui”, ha scritto Mentana, diverse ore dopo che la sua onomaturgia era diventata un caso (come la maggior parte delle cose che fa e dice e che le testate online, furbescamente, riprendono assicurandosi così una caterva di click), tra appelli all’Accademia della Crusca e parallelismi con Gianni Morandi, guru e, forse, anche macchietta di un internet bucolico, ingenuo, diplomatico, cioè irreale. Perfettamente consapevole, Chicco, che diventare un tormentone, un meme, una gif è la sorte che spetta a qualsiasi cosa che diventi un hashtag: il prestito indiscriminato del suo senso fino alla sua perdita.
Umberto Eco non usò mai i social network: prima ancora di temerli, li aborriva. Ma Eco era un accademico, Mentana ha mollato l’università dopo qualche esame, sapendo che non si diventa giornalisti sui manuali. Eco scherniva i tifosi, Mentana è un acceso interista. Donchisciottesco come tutti gli interisti. Mentana non osserva la rete: contribuisce a riempirla.
Mentana l’hanno copiato tutti per sopravvivere. Ha rivoluzionato e inventato ovunque sia passato. Ha vinto molto più di quello che vince un interista. Lo share del TG5, che diresse appena trentaseienne, superò quello del TG1 dalla prima sera in cui andò in onda, mietendo un record dopo l’altro per diverse settimane. Quando non poteva più “fare il cazzo che voglio”, ha tolto le tende. Quando Mediaset era liberale, l’ha resa libertaria. Berlusconi affidò a lui il compito di “fare il giornale più libero che si può”. Quando La7 era una carovana di esuli, l’ha resa un esperimento tanto necessario quanto raffinato. Con una vita arricchita da amici che si contano su una mano sola. Una sola canna sul cv: avrebbe dovuto ricordarselo, la sua ex moglie, Michela Rocco di Torrepadula, quando a Natale scorso ha twittato una foto del suo frigo dove campeggiava uno scatto di lei ed Enrico, accanto a un adesivo di Christiania, il quartiere hippy di Copenaghen. Camminatore, niente patente. Niente feste, il cinema un paio di volte all’anno. Ha raccontato a Malcom Pagani, sul Fatto Quotidiano, di non sapere chi fosse Lady Gaga e di averlo scoperto per puro caso, durante una conversazione informale.
Sembra e anzi è l’opposto di un influencer (lo prova il suo non accondiscendere mai i suoi lettori) eppure l’Italia sul web respira freschezza alpina da due giorni, dal conio di webete. Ma Mentana, pur vanesio e arrogante e insopportabile, non cede alla lusinga, addirittura ne prende le distanze. Non vuole diventare il nuovo Gianni Morandi, l’imitazione di Crozza è già un rischio che lo espone alla sua canonizzazione manierista. “Webete” è stato un lampo di genio, ma non si vive di temporali, né di arcobaleni. Si vive coi piedi piantati per terra, dove s’impara che “la distanza tra virtuosi e virtuali” si colma accettando le sfide e le maratone. Come quella di correre incontro ai webeti ogni giorno, che a Mentana riesce magnificamente e che, chissà, magari un giorno renderà persino Facebook un format libertario e geniale.