“Winter is coming”: comincia così un’analisi spietata di McKinsey sul futuro delle compagnie di bandiera europee. L’inverno sta arrivando e, come ci ha insegnato Game of Thrones, porta infiniti guai. Vale a dire una competizione sempre più forte da parte delle compagnie low cost e soprattutto di quelle del Golfo, una riduzione dei profitti e una prospettiva senza vie di mezzo: avere una compagnia risanata o non averla del tutto.
Perché tutto questo pessimismo? Perché, paradossalmente, il 2015 è stato un anno buono e si rischia di far finta di non vedere delle tendenze di medio e lungo periodo che sono molto negative. Un paio di dati possono rendere l’idea: dal 1985, il settore globale dell’aviazione ha perso in media 13 miliardi di dollari all’anno; il che vuol dire che i ritorni del settore sono inferiori al costo del capitale – e che Alitalia non era l’unica a perdere. Tra il 2010 e il 2014 la perdita è stata simile, tra gli 11 e i 12 miliardi di dollari all’anno. Profitti, limitati, li hanno fatti i produttori di aerei e componenti, qualche società di handling e catering, i provider di servizi di navigazione e altri fornitori, ma le compagnie mai. Fino al 2015: quasi miracolosamente, il loro utile operativo, a livello globale, è schizzato a 59 miliardi di dollari, ossia un margine operativo dell’8 e passa per cento. Alitalia è arrivata al pareggio (si parla di utile operativo, non di utile netto), mentre le altre società europee si sono attestate attorno al 5%, con la punta del 10% di margine operativo di Iag (British Airways e Iberia). Champagne stappato, calici alzati. Ma un problema, di fondo: se i prezzi del petrolio fossero rimasti quelli del 2014, staremmo qui a parlare di una perdita di almeno 6 miliardi di dollari.
Dopo aver person più di 10 miliardi di dollari all’anno per oltre 20 anni, nel 2015 ilbotto: l’utile operativo delle compagnie aeree, a livello globale, è schizzato a 59 miliardi di dollari. Ma un problema, di fondo: se i prezzi del petrolio fossero rimasti quelli del 2014, staremmo qui a parlare di una perdita di almeno 6 miliardi di dollari
Da qui parte il viaggio dei consulenti che, come da mestiere, partono con il mazzo degli imprevisti e delle probabilità. La più misteriosa delle variabili è la Brexit. Avrà impatti sulla libertà di operatività delle compagnie britanniche in Europa e di quelle continentali nel Regno Unito? E sulla libertà di spostamento delle persone? Finché non si firmerà un accordo, è impossibile prevederlo, anche perché se si arrivasse a un’associazione sul modello norvegese, gli effetti sarebbero minimi. Così come c’è fumo nella sfera di cristallo dell’economia britannica. I primi dati sono stati molto superiori alle aspettative, anche la Iata (l’associazione mondiale delle compagnie aeree) prevede che nel 2020 il Pil del Regno Unito sarà del 2,5-3,5% inferiore rispetto a uno scenario senza Brexit.
La seconda variabile è data dalle fusioni tra compagnie: la tendenza, negli Stati Uniti, in Sudamerica ed Europa è di un continuo concentrarsi della quota di mercato dei primi tre operatori. L’Europa è ancora su livelli bassi (il 31%, contro il 75% degli Usa), ma le compagnie devono preparasi alla possibilità di comprare o essere comprati. Ci sono poi i modelli di business: ormai non è un tabù pensare che le differenze di proposte tra le compagnie tradizionali e quelle low cost spariscano. L’unica vera differenza potrebbe essere quella tra vettori a corto o a lungo raggio. Tradotto: tutti potrebbero abbassare i prezzi, far pagare i bagagli extra, così come i pasti e la scelta del posto. Considerato quel che si è visto negli ultimi anni, lo scenario non è solo realistico, è quasi reale. Infine l’apertura europea alle società non-comunitarie. Riusciranno emiratini e cinesi a conquistare – se i governi europei e la Commissione lasceranno fare – non più solo quote di minoranza delle società (fino al 49%, come Etihad in Alitalia) ma a prendere possesso della maggioranza? Perché le cose, in quest’ultimo caso, cambierebbero.
Se ci sono delle certezze, al di là delle probabilità, è che il peso dei vettori del Gulfo (o Gluf Plus: Emirates, Etihad, Qatar, più la simile per struttura e finanziamenti Turkish Airlines) è cresciuto in modo impressionante negli ultimi anni. Bisogna abbandonare la logica delle trimestrali e fare un paio di passi indietro per capire quanto. Tra il 2000 e il 2015, Emirates ha triplicato le sue destinazioni europee, e serve il 92% di queste quotidianamente. Tutte assieme le “Gulf Plus” hanno raddoppiato gli aeroporti serviti (da 44 a 81) e quadruplicato il numero di posti a sedere. Tutto questo ha fatto male le compagnie europee per vari motivi. Il primo è i voli delle Gulf Plus che costano di meno, pur avendo tutte quattro stelle nella classificazione di Skytrax (la stessa categoria di Lufthansa e Air France), tranne Qatar, che ne ha cinque (se vi steste chiedendo di Alitalia, ne ha tre). La competizione ha portato a una riduzione dei rendimenti del 22 per cento sulle rotte Europa-Asia e a uno spostamento sempre più rapido degli hub utilizzati nelle rotte Europa-Asia. Nel 2006 il primato era di Amsterdam, Francoforte e Parigi. Oggi è di Dubai, Doha e Istanbul. Se qualcuno pensa che il trend possa cambiare, dia un’occhiata alle prenotazioni degli aereomobili dai produttori (la sola Emirates, che oggi ha 244 aerei, ne ha ordinati 298) e agli investimenti previsti nei tre aeroporti citati.
La crescita delle compagnie low cost ha portato a una diminuzione dei rendimenti nelle rotte europee del 40%. L’affermarsi dei vettori del Golfo a una discesa del 22% dei rendimenti sulle rotte Europa-Asia. Vantaggi per i clienti, dolori per le compagnie tradizionali
Bene. Il “nemico” delle varie British Airway-Iberia, Air France-Klm e Lufthansa è all’esterno? Nient’affatto. Ha i nomi di Ryanair, easyJet e delle altre compagnie low cost. Non è certo una novità. Ma è un fatto che la concorrenza di questi vettori (capacità raddoppiata nell’ultimo decennio) ha abbassato i rendimenti per i voli intra-europei del 53% dal 2000 e del 40% nei soli ultimi dieci anni. Delizia per i clienti, dolori per le compagnie tradizionali. Se qualcosa questi dati vogliono dire, è che il settore è competitivo e che, se anche ci sono dei momenti in cui tutti fanno la cresta (come nel caso della discesa del petrolio del 2015), nel lungo periodo ricavi e costi per chilometro seguono le stesse tendenze, perché questo impone la concorrenza.
Di chiudere bottega, di fronte a questi scenari impervi, la società di consulenza non vuol sentire parlare. Ma parla di un “imperativo”: usare il tesoretto ottenuto dal calo del prezzo del petrolio per fare tre mosse strategiche. La prima: condurre e vincere battaglie con i fornitori e con i partner. Che siano agenzie o sistemi globali di distribuzione, è il momento di rinegoziare. Se gli altri fanno saltare il tavolo, si possono usare i soldi per coprire i contraccolpi temporanei. La seconda: comprare aerei. Può sembrare assurdo spendere miliardi per questo, ma alla lunga un aereo di proprietà costa molto meno di uno in leasing. La terza: portare dentro la manutenzione. Le società che forniscono i motori hanno un modello di business tipico delle marche di rasoi: ti faccio pagare poco il rasoi e tanto le lamette, vale a dire la manutenzione. Ci sono poi altri consigli, come rivedere da zero tutti i servizi dati ai passeggeri e valutare di comprare altre compagnie. Insomma, un lavoraccio. Ma sulla necessità della battaglia i consulenti di McKinsey non hanno dubbi, e non esitano a giocare la carta di Cersei Lannister (altro personaggio di Game of Thrones): «You win or you die».