Migliaia di like, qualità zero: il successo all’epoca della decadenza

Come diceva Marcello Marchesi: “mangiate merda, milioni di mosche non possono sbagliare”. Ma ciò che vende ha sempre ragione? Chi si lamenta è solo invidioso? Le visualizzazioni su youtube sono un valore?

Non ci si trova del tutto fuori dallo zeitgeist coltivando una smania catalogatrice, che sfocia in elenchi ordinati, magari di un solo elemento, più facili da likeare: la tavola periodica, il Grammy come miglior album rock, la pagina wikipedia con i vincitori del premio Nobel per la letteratura, i BAFTA, no tav, senza olio di palma, con il benestare della corte costituzionale, i millennials, no ogm, con il latte di soia, di riso, senza glutine, un documentario o un film? O piuttosto video-art? graphic novel, i bagni senza riferimento al genere sessuale nei musei d’arte contemporanea delle grandi capitali del Mondo…

Arbasino ha scritto in Paesaggi italiani con zombi che

“…la produzione libraria appare il solo settore che ha eliminato ogni classifica di qualità e livello, come ne esistono in ogni campo e ramo commerciale e sportivo e turistico, giacché la clientela esige criteri di selezione non generici per distinguere in categorie gli alberghi e gli ostelli, le sartorie e le jeanserie, le hamburgerie e i due o tre stelle, così come stabilisce gerarchie nette fra le squadre di calcio e di altri sport.”

Esercitiamo, dunque, un nostro diritto, e anzi sopperiamo a un dovere di certa classe dirigente, sciorinando sotto-insiemi arbitrari inerenti alla letteratura: ci sono scrittori, allora, come Jonathan Safran Foer, Franzen e Piperno che vengono attesi e poi letti e intervistati da Lagioia perché sono bravi e per via della proprietà performativa dell’emozione descritta da Byung-Chul Han; qualcuno, invece, azzecca la congiunzione astrale o la campagna di marketing, il Modello The Blair Witch Project (50 Shades of grey, La ragazza sul treno); altri sono baciati dal talento e dall’amore dei lettori (Stephen King, J.K. Rowling, Charles Dickens) e c’è chi ha avuto non tanto successo prima di morire quanto avrebbe meritato (Bolano, Philip K. Dick).

E poi ci sono loro. Gli scrittori che in vita hanno pubblicato poco o niente e altrettanto successo, soldi, fama hanno ricevuto. Non compaiono in interviste sulla Paris Reviews of Books o video youtube dell’archivio RAI in cui dialogano con Arbasino. Sono morti dimenticati, la loro lapide ha più visitatori di quanti ne ebbero, in vita, le loro presentazioni.

Tutto è inutile. Ho lavorato senza mai un risultato; ho oziato, la mia vita si è svolta nell’identica maniera. Ho pregato: non ho ottenuto nulla. Ho bestemmiato: non ho ottenuto nulla. Tutto è egualmente inutile.

Così scrisse Guido Morselli (Bologna, 1912 – Varese, 1973), scrittore italiano, a cui oggi sono dedicate, tra l’altro: due righe di biografia su NYRB.com, un premio letterario assegnato in provincia di Varese, qualche centimetro cubo su certe librerie per effetto di qualche migliaio di caratteri impressi su carta in Italia dalla casa editrice diretta da Roberto Calasso che, per la stessa proprietà performativa dell’emozione di cui sopra, campeggia nelle foto facebook di tanti italiani, Adelphi. I libri di Morselli vennero stampati a partire dal 1974, grazie a Luciano Foa. Lui, però, si tolse la vita nel 1973, pubblicando in vita solo due saggi, Proust o del sentimento nel 1943 e Realismo e fantasia nel 1947, dopo aver lottato, vanamente, per veder in vendita i propri romanzi, letti e rifiutati, fra gli altri, da Calvino e Fruttero.

“Suonano profetiche”, come si usa dire, le sue parole in Dissipatio H.G., il suo ultimo libro, il “testamento letterario” di Morselli, scritto un anno prima di spararsi un colpo.

Il romanzo è narrato in prima persona. Gli esseri umani spariscono una notte all’improvviso, fra il 1 e il 2 giugno. La valle fra i monti, dove vive il protagonista, si svuota dei suoi abitanti. Crisopoli, la città più vicina, è vuota. Da quattrocento, quattrocentoventimila anime a zero. Rimane quello che è organico o vivente (tulipani, gelsomini, gatti che si inseguono e fanno l’amore ai piedi dei monumenti della finanza), ma non umano. Quella stessa notte il narratore, 39enne, aveva deciso di togliersi la vita, per poi ripensarci all’ultimo, sorseggiando liquore spagnolo, preso com’è dalle digressioni enologiche, riflettendo su come la gloria dei cognac francesi sia effetto di una suggestione collettiva. Torna a casa, va a dormire, fa colazione con pane, burro, marmellata, caffè, latte e miele, esce di casa e non c’è più nessuno. Dove sono tutti? L’umanità ha trovato infine il suo ultimo rappresentante in un uomo che stava per farla finita annegandosi in un laghetto.

Dissipatio H.G. è un romanzo molto diverso dal canone (Ah! La smania catalogratrice…) del romanzo italiano novecentesco, è triste, è postumo, è onesto, è casereccio, è… kafkiano. Chi dovesse trovarsi a passare da Gavirate, in provincia di Varese, può visitare la casina rosa dove Morselli compose Dissipatio H.G. e passò i suoi ultimi anni di vita, leggendo, scrivendo, coltivando la terra e disperandosi per i rifiuti delle case editrici.

La pubblicità sul primo testo mai pubblicato di Franz Kafka (Praga 3 luglio 1883 – Kierling 3 giugno 1924), una raccolta di racconti, recitava: “fino ad oggi, la sua tendenza compulsiva a revisionare continuamente il suo lavoro letterario gli ha impedito di pubblicare un libro”

Si sa, Kafka è morto sconosciuto (non è forse tremendamente kafkiano uno scrittore che muore nell’anonimato e post-mortem si trasforma, come diceva Fellini, in un aggettivo?), pubblicò in vita La metamorfosi e poco altro e dobbiamo la sua presenza sugli scaffali delle nostre librerie al lavoro postumo del suo amico (e traditore delle esecuzioni testamentarie) Max Brod. E quindi, mentre Sofia Viscardi conversa su La Lettura del Corriere della Sera con il filosofo Giulio Giorello, Kafka lavorava come agente assicurativo dalle otto alle diciotto, e non sappiamo nemmeno il colore dei suoi occhi. Qualche testimone li descrive come grigi, qualcuno scuri, qualcuno blu, qualcuno marroni.

Citazione di Kafka nelle ultime dieci pagine di Eccomi, di Jonathan Safran Foer:

“Oh, c’è speranza, infinita speranza – solo non per noi”.

Il vero vincitore del premo Bach, però, l’autore più ingiustamente ignorato in vita, è John Kennedy Toole (New Orleans, 17 dicembre 1937 – Biloxi, 26 marzo 1969): soffriamo per le sue sorti avverse, perché per via della scarsa lungimiranza di qualche editor abbiamo un solo libro scritto da lui, Una banda di idioti. E che libro.

Nell’introduzione alla versione americana, Walker Percy racconta di quando scoprì dell’esistenza di Toole. Era il 1976, e Percy insegnava a Loyola, in Louisiana, quando iniziò a ricevere numerose chiamate da una donna che voleva lui leggesse un manoscritto, non qualche capitolo qua e là, ma un intero libro, scritto da suo figlio, ora morto, negli anni sessanta. Un bel giorno questa madre insistente riuscì a presentarsi, con il sudicio manoscritto, nell’ufficio del professor Percy, che iniziò a leggerlo, pensando di fermarsi al primo paragrafo. E invece continuò, andò avanti, fino a finirlo, e lottare per vederlo pubblicato, e contribuire a regalare a Una banda di Idioti un’esistenza ben più lunga di quella del suo sfortunato autore.

Secondo i racconti di chi l’ha conosciuto, Toole è stato un brillante insegnante e un uomo simpaticissimo, se pur con qualche bizza di carattere, prima che i continui rifiuti ai suoi tentativi di veder pubblicare il suo libro lo portarono alla pazzia (o perlomeno, a tenere comportamenti bizzarri), all’isolamento e poi al suicidio, in un garage di Biloxi, nel Mississipi.

Ora, intendo davvero sbilanciarmi riguardo a Una banda di idioti: è bellissimo, uno dei tre libri più ha-ha della storia, vi farà venir voglia di leggere Boezio, di andare in Louisiana, di chiudervi in camera con dei taccuini, di rileggere un milione di volte la storia del viaggio di Ignatius in Greyhound, l’unica volta che ha abbandonato New Orleans.

Ignatius, il protagonista, è l’eroe di questo millennio, la perfetta sintesi fra snobismo e atteggiamenti disgustosi, fra parlata evolutissima e raffinata e comportamenti retrogradi e sfrenatamente egoisti. Rimane un solo rimpianto. Mentre Updike ha fatto crescere davanti ai nostri occhi il suo Coniglio, Roth Zuckerman, e via dicendo, Ignatius è morto con Toole. Possiamo solo immaginare cosa ne sarebbe stato dei costumi moderni, satireggiati (altro che Moby e i suoi video didascalici) dal ciccione sociopatico protagonista di A confederacy of dunces. Non sarebbe troppo difficile, oggi, trovare una banda di idioti di cui scrivere.

Come diceva Marcello Marchesi e, in una parafrasi, la pubblicità di Dookie dei Green Day: mangiate merda, milioni di mosche non possono sbagliare. Chi vende ha sempre ragione? Chi si lamenta dell’egemonia culturale di certi prodotti scadenti è invidioso, e vorrebbe starci lui? Le visuals su youtube sono un valore morale?

Le risposte, forse, sono in un libro che qualcuno sta scrivendo in questo momento, verrà rifiutato fra qualche mese e poi pubblicato fra vent’anni.

Come dice Nanni Moretti in Bianca: vabbè, continuiamo così. Facciamoci del male.

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