Da Matteo Renzi a Emmanuel Macron, senza dimenticare Donald Trump e Beppe Grillo. E prima di loro Silvio Berlusconi. Archiviato il ruolo dei partiti, la politica contemporanea celebra l’uomo solo al comando. Leader solitari, in rapporto diretto con i propri elettori. Sempre criticati e molto spesso vincenti. È un fenomeno inevitabile, forse fisiologico, che si accompagna alla nascita di nuovi movimenti personali e al tentativo di personalizzare partiti già esistenti. «È vero, questo è il trend generale» racconta Mauro Calise, docente di Scienza Politica all’Università di Napoli Federico II, giornalista e scrittore. Autore, tra gli altri libri, de “Il partito personale” e “La democrazia del leader”. Uno dei principali studiosi dell’argomento. «Però ci sono differenze importanti che è giusto precisare».
La storia parte da Ross Perot. Il miliardario texano che nel 1992 si candidò da indipendente alle presidenziali americane, riuscendo quasi a scardinare il bipartitismo statunitense. Equidistante da democratici e repubblicani. «Sondaggi alla mano – ricorda Calise – a un certo punto sembrava quasi che potesse farcela». Alla fine Perot perse la corsa alla Casa Bianca, nonostante le indubbie capacità comunicative. A giocare un ruolo decisivo l’assenza di un’organizzazione capillare sul territorio. Fondamentale, in una campagna giocata in cinquanta Stati diversi. E qui arriva l’intuizione di Donald Trump. «Trump ha capito che presentandosi in quel sistema elettorale come terza forza, non poteva farcela. Così ha lanciato un’Opa sul Partito repubblicano. Ed è riuscito a spuntarla». Affermandosi fuori dal partito tradizionale, ma non contro di esso.
Torniamo in Italia. Il primo caso di partito personale risale a Forza Italia nel 1994?
Silvio Berlusconi studia Ross Perot da vicino. È un suo caro amico, nell’estate del 1993 ci passa insieme le vacanze alle Bermuda. Approfondisce la sua comunicazione, quella famosa disintermediazione. E fonda un partito. A differenza di Perot, tuttavia, il Cavaliere possiede Mediaset e Pubblitalia. Ci sono già ramificazioni sul territorio, quadri e dirigenti che possono fornire un’organizzazione e reclutare persone. Così nasce il suo partito personale.
Berlusconi importa il nuovo modello in Italia.
Qualche tempo dopo arriva Beppe Grillo. Lui fa la stessa operazione di Berlusconi, identica. Ma è ancora più intelligente. Utilizza la televisione insieme al web. Si inventa una struttura centralizzata e attraverso la Rete gestisce tutto. Grillo è un mago della comunicazione: i suoi non possono andare nelle trasmissioni, rilascia pochissime interviste. Ma quando attraversa a nuoto lo stretto di Messina e altre genialità simili, ha l’attenzione di tutte le telecamere. Gratis. Siamo sempre all’interno dello stesso solco: il partito personale e la capacità comunicativa.
«Silvio Berlusconi studia Ross Perot da vicino. È un suo caro amico, nell’estate del 1993 ci passa insieme le vacanze alle Bermuda. Approfondisce la sua comunicazione, quella famosa disintermediazione. E fonda Forza Italia. Il primo partito personale in Italia»
La vicenda di Matteo Renzi è molto diversa. Oppure no?
Renzi deve aver studiato bene queste vicende. Quando arriva sulla scena, ormai in Italia tutti si sono fatti il loro partito personale: Di Pietro, Fini…. Persino Mario Monti non resiste alla tentazione. Fosse rimasto fermo, il professore sarebbe diventato capo dello Stato. Invece anche lui fonda il suo movimento. Ma Renzi capisce i limiti del partito personale. Consapevole delle difficoltà organizzative, prova la scalata al Pd. Dopo il suicidio elettorale di Bersani, riesce a conquistarlo. Invece di creare una sua formazione politica, lancia un’operazione di forte personalizzazione del partito. La stessa fatta all’estero da Tony Blair e da Angela Merkel, per intenderci.Una grande vittoria?
In realtà, dopo un iniziale successo, i suoi avversari interni iniziano a logorarlo. Prima si apre il confronto sulla legge elettorale, poi sulla riforma costituzionale, infine arriva la scissione. E così a breve Renzi si ritroverà segretario di un Pd molto ridimensionato e con una conflittualità interna ancora elevata. Ormai anche lui ha capito che il controllo del partito sarà sempre problematico.Manca l’ultimo protagonista sulla scena, Emmanuel Macron.
Fin qui l’Italia, ora la Francia. Macron ha dato vita a un’operazione identica a quella di Renzi. Voleva dare battaglia all’interno del partito socialista, simile al nostro Pd. Ma alla fine ha fatto una scelta geniale: ha deciso di non partecipare alle primarie e lanciarsi in una partita personale. Il problema, semmai, è il suo movimento, questo En Marche. Non è una macchina da guerra come quelle create di Berlusconi e Grillo, piuttosto una macchinetta. Vedremo cosa succederà alle legislative. Nel frattempo l’operazione di Macron sta funzionando.«Se c’è un sistema istituzionale in grado di incardinare e regolamentare le personalizzazioni, queste si possono governare. In Francia e negli Stati Uniti esiste un meccanismo di pesi e contrappesi, una seria divisione dei poteri. Se questo sistema non c’è, come in Italia, si resta alla mercé del partito personale di turno. Rimane il problema della personalizzazione, ma senza che questa produca governabilità. Il massimo della fregatura»
Tra tante storie diverse, un punto in comune. Tutti questi leader sono molto ricchi, eccezione fatta per Renzi. Un caso?
Questa è un’altra considerazione. Non è un caso. Anzi, sta diventando un fenomeno sempre più importante e preoccupante. C’è una contaminazione molto forte tra leadership politica e business. Faccio un altro esempio: negli ultimi decenni molti leader hanno abbandonato la propria carriera politica per fare affari. Penso all’ex cancelliere tedesco Gerhard Schroeder finito a lavorare con Gazprom. Rispetto alla sua domanda, quindi, si potrebbe pensare che Renzi è diverso dagli altri perché è entrato in politica senza molti soldi. Ma non è detto che uscendo dalla politica non decida di farli.Per qualcuno l’uomo solo al comando rappresenta un rischio per la democrazia. Ma c’è anche un aspetto positivo: in caso di sconfitta politica, il colpevole è facilmente individuabile.
E poi qualcuno deve pur governare… Insomma, ben vengano leader forti. Ma sempre in un contenitore istituzionale adeguato. In Italia purtroppo non è così: non c’è un presidente come in Francia, non c’è un primo ministro alla tedesca. Eppure quando Renzi ha provato a fare una riforma – in cui non c’era neanche l’ombra di un rafforzamento dei poteri del premier – è stato subito accusato di deriva autoritaria. Se c’è un sistema istituzionale in grado di incardinare e regolamentare le personalizzazioni, queste si possono governare. In Francia e negli Stati Uniti esiste un meccanismo di pesi e contrappesi, una seria divisione dei poteri. Se questo sistema non c’è, come in Italia, si resta alla mercé del partito personale di turno. Rimane il problema della personalizzazione, ma senza che questa produca governabilità. Il massimo della fregatura.