Altro che treni e porti, la Cina sta riscrivendo a sua immagine la globalizzazione

La Nuova Via della Seta sarà il mezzo per esportare la capacità produttiva cinese nei Paesi attraversati. Vedremo una Cina sempre più pronta a difendere i propri interessi all’estero. È un volto nuovo del Paese, che al suo interno vede un clima sempre più difficile per gli investitori stranieri

WANG ZHAO / AFP

Si fa presto a dire “Cina alfiere della globalizzazione”. In molti l’hanno fatto, dopo la visita da protagonista del presidente cinese Xi Jinping a Davos, subito dopo l’arrivo alla Casa Bianca di Donald Trump. Ma la realtà è un po’ più complessa. Non solo perché a oggi il Paese asiatico rimane strenuamente protezionista in molti settori e si avvia nel medio termine ad alzare barriere su altri comparti considerati strategici, come tutti quelli che hanno a che fare con la tecnologia. Ma perché sarebbe da ingenui non capire che la Cina, oggi, la globalizzazione sta provando a cambiarla a sua immagine e somiglianza.

Il progetto One Belt One Road (o Nuova Via della Seta, discusso nel Belt and Road Forum il 14 e 15 maggio a Pechino) va letto in questa chiave: non sarà solo un progetto di infrastrutture che agevoleranno i commerci. Sarà un modo per esportare la capacità produttiva cinese nei Paesi attraversati dalla nuova Via della Seta. E sarà un processo nel quale vedremo all’opera, per difendere i nuovi interessi in quei Paesi, il “Sistema” cinese, fatto di confini non netti tra Stato e imprese e di relazioni che tendono a prevalere sulle regole. In questo passaggio prepariamoci a vedere anche un’altra faccia della Cina. Quella di un Paese che, dopo decenni di basso profilo in politica estera, si mostrerà sempre più disposto a tutelare i propri interessi all‘estero. Non è escluso, in via teorica, che lo faccia anche attraverso la presenza militare, con una sterzata graduale rispetto agli storici “Cinque principi di pacifica coesistenza”, tra cui figura il principio di non ingerenza negli affari interni dei Paesi sovrani. In questi momenti di cambiamento occorre conoscere sempre più a fondo la Cina e guardare anche gli effetti, contraddittori, che stanno contraddistinguendo l’operatività di chi investe nel Paese: dove alcune regole si semplificano, le tutele aumentano (come per la proprietà intellettuale) e le opportunità rimangono amplissime. Ma dove il clima verso gli stranieri si è fatto più ostile e il rapporto con le istituzioni sempre più asimmetrico a svantaggio delle imprese estere.

Sono alcuni degli spunti emersi dalla presentazione del rapporto “Cina 2017 – Scenari e prospettive per le imprese” della Fondazione Italia-Cina, presentato venerdì 19 maggio a Milano. Per capire che succede bisogna partire dalle basi. Ossia dalla politica del “New Normal” seguita da Pechino. La ricetta è nota: meno investimenti improduttivi, meno export a basso costo, meno debito e più consumi, più servizi, più qualità. La pratica è diversa, perché la sovracapacità non è scesa, per esempio nell’acciaio. L’Europa lo sa bene, non avendo concesso per questi motivi lo status di economia di mercato alla Cina. Pesano, nella mancata riduzione di produzione cinese, i forti costi che sarebbero pagati a livello sociale e a livello politico dai governatori delle province destinate a essere più colpite dai tagli, come quella di Hebei. La dura lotta di potere che si è aperta tra questi potentati locali e Xi Jinping (mascherata spesso dalla lotta alla corruzione) ha questo retroterra.

Prepariamoci a vedere anche un’altra faccia della Cina. Quella di un Paese che, dopo decenni di basso profilo in politica estera, si mostrerà sempre più disposto a tutelare i propri interessi all‘estero. Anche attraverso la presenza militare

Le riforme di Xi Jinping si basano sulla necessità di far crescere la produttività, attraverso due pilastri: il primo è quello del piano “Made in China 2025”, che sposa le istanze della quarta rivoluzione industriale e pone al contempo l’accento sull‘innovazione “indigena“. Questo, ha spiegato uno degli autori del rapporto, Filippo Fasulo (coordinatore scientifico CeSif), significherà che in molti settori si tenderà ad avere una produzione per il 70% cinese: ci sarà una prima fase di apertura agli investimenti esteri, per assorbire il know how; e una seconda fase segnata da una competizione serrata e barriere alzate. Le imprese sono avvertite. Il secondo pilastro è quello, appunto, della Belt and Road Initiative, un progetto, vale la pena ricordare, il cui valore complessivo è di 1.400 miliadi di dollari e in cui rientreranno i progetti per i porti di Trieste e Genova. «Ero al Forum (a Pechino, ndr) e si avvertiva un senso di svolta epocale», commenta Fasulo. Che aggiunge: «Deve essere chiaro che la Belt and Road Initiative non è solo un piano di infrastrutture rivolto al commercio. L’altra componente fondamentale è la “industry capacity cooperation”. Sono gli investimenti industriali nei vari territori interessati dalle nuove rotte commerciali, ma anche al di fuori». Gli esempi sono già diversi, dalla creazione di un’azienda siderurgica in Malaysia all’accordo tra la casa automobilistica cinese Chery e un produttore indiano, oltre alla realizzazione di uno stabilimento in Brasile. Dai parchi industriali in Etiopia alla centrale nucleare di Karachi, in Pakistan. «È un modo per esportare la capacità produttiva cinese in questi territori. La Belt Road Initiative è sinonimo di globalizzazione», commenta Fasulo. Il corollario è appunto la difesa di questi interessi, potenzialmente anche per via militare. Pechino è decisa a non ripetere esperienze come quella della Libia del 2011, quando 26mila cittadini cinesi dovettero lasciare il Paese nel giro di poche ore. Una recente legislazione antiterrorismo ha decretato che la Cina potrà inviare contingenti militari nei Paesi che chiedano il suo intervento. Attualmente ci sono presenze cinesi nelle forze di peacekeeping in Sud Sudan. C’è quindi un filo rosso che lega le riforme economiche, la globalizzazione e la tutela degli interessi all’estero.

Che il New Normal non sia rimasto sulla carta lo dicono i molti dati riportati nella ricerca della Fondazione Italia-Cina e illustrati da Alberto Rossi, responsabile marketing della Fondazione Italia-Cina e analista del CeSiF. I servizi hanno già raggiunto il 51,6% del Pil e i consumi hanno rappresentato i due terzi della crescita del Pil stesso nel 2016. Questo permette di sfatare molti dei miti cresciuti negli scorsi anni attorno alla Cina: quello di luogo dove delocalizzare a basso costo (i salari sono quadruplicati o quintuplicati rispetto al 2003, a seconda delle province) . Quello della Cina come fabbrica del mondo. Quello di Paese delle copie, perché gli investimenti di ricerca e sviluppo a Pechino hanno il rapporto maggiore al mondo e altre province sono sopra i livelli di Israele. La Cina ha anche compiuto, nel 2015, lo storico sorpasso degli investimenti fatti all’estero, rispetto a quelli effettuati da stranieri al suo interno. Un trend che si è rafforzato nel 2016, con un saldo positivo di oltre 40 miliardi di dollari. L’Italia ha visto un boom di investimenti esteri nel 2015, con l’affare Pirelli, seguito da un rallentamento. Definire questo Paese così complesso un “alfiere della globalizzazione”, ha spiegato Alberto Rossi, sarebbe semplicistico, perché «c’è protezionismo in vari settori e rimane uno dei Paesi al mondo con il grado di protezionismo più elevato».

Sono molti i miti da sfatare sulla Cina: da quello di fabbrica del mondo a basso costo a quello di Paese delle copie. Gli investimenti di ricerca e sviluppo a Pechino hanno il rapporto maggiore al mondo

Le criticità per le aziende straniere, come quelle italiane, che si trovano in Cina sono sempre di più, ha spiegato l’avvocato Renzo Cavalieri, “Of counsel” dello studio Bonelli Erede e attivo da quasi 30 anni nel Paese. «Internamente l’atmosfera non è più quella d’oro di qualche anno fa», ha scandito. «Gli ostacoli specifici per fare business in Cina sono crescenti». Anche se le legislazioni, in materia di fisco, ambiente e tutela della proprietà intellettuale hanno fatto dei progressi, ha spiegato, «c’è una grande dissociazione tra le regole e la realtà. I meccanismi di funzionamento rendono le cose più complesse». Questo perché la Cina funziona come un “sistema” dove si intrecciano le azioni di governo, aziende, banche e consulenti. «Non è uno Stato basato sul principio di legalità ma su quello dell’unità dei poteri dello Stato». Ossia potere non limitato da contropoteri come magistratura e stampa. Può sembrare teoria ma, continua l’avvocato, «ci sono effetti micro: se devo rendere esecutiva una norma contro un’azienda controllata dallo Stato ci sono difficoltà enormi. Si muovono male tutti, ma gli stranieri malissimo». Tra tutti i settori, continua l’avvocato Cavalieri, quello finanziario è il più problematico, perché più evidente è l’asimmetria tra la mancanza di limiti messi alle aziende cinesi all’estero e i vincoli strettissimi imposti a chi viene da fuori della Cina. Non solo. Il problema è anche culturale: «L’atteggiamento del “Sistema” verso gli stranieri è mutato, si avvertono sempre più arroganza e fastidio. Negli anni Ottanta i cinesi hanno accettato di garantire alti profitti alle aziende straniere, perché il “baratto” prevedeva l’acquisizione di competenze tecnologiche. Ora il margine di compensazione si è ridotto. Se si va in Cina portando eccellenze assolute si hanno grandi opportunità. Se non si hanno vere eccellenze, è sempre più difficile». Mentre quando si guarda agli investimenti cinesi all’estero bisogna considerare l’enorme peso assunto dall’amministrazione valutaria.

Che conclusioni bisogna trarre da questo quadro? Non certo che la via da perseguire sia quella del protezionismo di retroguardia. «Sappiamo, perché ce lo dicono molte multinazionali, che non siamo più nell’età dell’oro per gli investimenti in Cina – commenta Alberto Rossi -. Ma non ha senso limitarsi a dire che la Cina è faticosa e che quindi non ci sono più opportunità. Le opportunità rimangono molto grandi e “adattamento” è la parola chiave. Se la Cina sia un’opportunità o una minaccia non è neanche più una domanda da porsi. È un fatto, nessuna azienda può permettersi di ignorare il mercato cinese. E nonostante le difficoltà c’è spazio per l’ottimismo».

«L’atteggiamento del “Sistema” verso gli stranieri è mutato, si avvertono sempre più arroganza e fastidio»


Renzo Cavalieri, studio Bonelli Erede

In questo quadro ambivalente, e con le stesse modalità relazionali rispetto ai paesi esteri, si muove uno dei settori più in crescita del business cinese: l’e-commerce. Il mercato online in Cina infatti è tra i più forti a livello internazionale, se si considera che ben 731 milioni di utenti hanno accesso a internet. Di questi, 572 milioni lo fanno attraverso dispositivi mobile, con cui fanno acquisti online. Si pensi al social media più utilizzato in Cina, WeChat, che oggi conta 889 milioni di utenti registrati, che possono eseguire prenotazioni (taxi, ristoranti e voli), fare shopping online e trasferire direttamente soldi ad altri contatti. Quest’ultimo servizio in particolare ha dato la possibilità di far nascere i cosiddetti Dai Gou, ovvero utenti che acquistano all’estero sfruttando la differenza di prezzo e si fanno rimborsare immediatamente dai propri contatti tramite la funzione Wallet di WeChat. Una piattaforma che asseconda il trend dell’e-commerce nel mercato cinese, che entro il 2020 sarà superiore all’insieme dei volumi generati da Usa, Uk, Giappone e Francia.

A un’analisi più approfondita, il settore che genera maggior ricavo nel mercato del web cinese è il Food Online, che registra il 43% dei volumi e di cui si stima un guadagno di 160 miliardi entro il 2020. Questa tendenza non può che far bene anche alle imprese dell’agroalimentare estere, tra cui quella italiana con il suo progetto E-Marco Polo (E-MP). Si tratta di un e-shop che ha l’obiettivo di promuovere i prodotti italiani in Cina attraverso un pacchetto completo di servizi “end-to-end” sulla piattaforma T-Mall Global. Una delle più importanti iniziative strategiche italiane, supportata da stakeholder privati e nata in seguito al M.O.U., firmato tra il governo italiano e il gruppo Alibaba l’11 giugno 2014. Proprio quest’ultimo è considerato il più grosso “market place” al mondo e leader dell’e-commerce in Cina con il 61,4% del mercato online B2C. Ciò che assicura il suo successo, del valore di 485 miliardi di dollari, è la capacità di semplificazione dei processi, le agevolazioni fiscali e la garanzia dell’autenticità dei prodotti.

Anche nel mondo digitale, però, la Cina si presenta come un Paese con una cultura e abitudini molto differenti rispetto all’Occidente. Dalle case history proposte da East Media infatti emerge che il contenuto e la forma della comunicazione delle aziende devono essere necessariamente diverse, sia per quanto riguarda lo storytelling e il brand dell’impresa, considerati elementi chiave nella vendita online, rispetto alle modalità europee che fanno leva sulle caratteristiche del prodotto. Inoltre l’e-commerce cinese, essendo un prodotto del web, si porta dietro tutte le limitazioni derivanti dalla legge sulla cyber security, che entrerà in vigore il 1° giugno 2017. In questo modo il governo cinese vuole: regolamentare la tecnologia, ovvero stabilire tutto ciò che può o non può essere utilizzato nel territorio online cinese; fornire il sostegno tecnico agli “operatori di rete” in materia di sicurezza nazionale e di indagini penali; memorizzare informazioni personali e “dati importanti” all’interno del Paese asiatico, tranne nei casi in cui sia veramente necessario inviare tali dati off-shore. Questo comporta inevitabilmente dei blocchi per le imprese straniere nell’operare liberamente nell’area online cinese e conferma, ancora una volta, un atteggiamento di diffida verso i venditori esteri.

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