La paura che i robot ci stiano rubando il lavoro non è giustificata. È successo altre volte nella storia, più di oggi, che alcuni lavori siano stati sostituiti dalle macchine, ma tutto si è risolto senza fare troppe vittime. Are robots taking our jobs?, l’ultimo studio di Jeff Borland e Michael Coelli, economisti dell’Università di Melbourne, è tra i più ottimisti in circolazione sul futuro del lavoro. Contro le previsioni catastrofiche sulla disoccupazione tecnologica e la fine del lavoro – che servono più che altro a vendere libri, dicono – Borland e Coelli dimostrano, numeri alla mano, che l’ammontare totale del lavoro disponibile sul mercato australiano non è diminuito con l’introduzione delle tecnologie digitali.
«Le economie avanzate non avevano sperimentato prima d’oggi una rivoluzione IT, ma per 250 anni si sono sempre adattate a cambiamenti nelle innovazioni tecnologiche non meno drammatici», scrivono. Insomma, nessuna distopia – è il loro ragionamento – tutto già visto. Certo, dicono, «alcuni lavoratori perdono il posto di lavoro, e questo crea la necessità di assistere queste persone affinché vengano ricollocate. Ma oggi non ci troviamo davanti a una sfida diversa e più complessa di quelle vissute altre volte in passato».
E anche la preoccupazione per le conseguenze nefaste dell’introduzione delle macchine è un sentimento non nuovo, dicono i due economisti. Non serve rimembrare il luddismo del diciannovesimo secolo. «La paura per la tecnologia raggiunge sempre il suo picco nei periodi di alta disoccupazione e nelle fasi di cambiamento strutturale. La fine del lavoro è già stata pronosticata diverse volte nella storia». Eppure il lavoro umano ancora esiste.
La paura che i robot ci stiano rubando il lavoro non è giustificata. È successo altre volte nella storia, più di oggi, che alcuni lavori siano stati sostituiti dalle macchine, ma tutto si è risolto senza fare troppe vittime
Certo, ci sono lavori oggi molto meno diffusi che in passato: dalle segretarie ai sarti, dagli impiegati di banca agli agricoltori. Ma se si guarda all’ammontare totale delle ore di lavoro, si vede che ci sono altre occupazioni che nello stesso periodo sono cresciute. A essersi ridotti, spiegano, sono soprattutto i lavori ripetitivi e routinari, ma la decrescita in questa categoria di impieghi non è nuova.
A guardare i numeri, già a metà degli anni Sessanta alcuni lavori che prevedevano mansioni ripetitive hanno cominciato a venir meno. Tra gli anni Ottanta e Novanta, poi, c’è stata una accelerazione nella creazione di nuovi lavori legati alla tecnologia. Ma non ci sono numeri, spiegano i due economisti, che dimostrino che dal 2000 in poi ci sia stata un’ulteriore accelerazione nella distruzione dei lavori routinari. «Non ci sono evidenze che le tecnologie digitali siano associate a un tasso più alto di distruzione di posti di lavoro o a una maggiore velocità di cambiamenti strutturali». Addirittura, se si guardano i dati, rispetto agli anni Ottanta il tasso di sostituzione dei posti di lavoro negli anni Duemila è anche diminuito.
Le economie avanzate non avevano sperimentato prima d’oggi una rivoluzione IT, ma per 250 anni si sono sempre adattate a cambiamenti nelle innovazioni tecnologiche non meno drammatiche. Insomma, nessuna distopia, tutto già visto
«I cambiamenti tecnologici, oggi come in passato, accrescono il tasso di sostituzione dei posti di lavoro e fanno aumentare il numero dei lavoratori che passa da un impiego a un altro. E soprattutto creano anche vincitori e vinti», spiegano Borland e Coelli, che in un’altra ricerca hanno analizzato la polarizzazione del mercato del lavoro dovuta all’innovazione tecnologica. Oggi i vinti sono coloro che hanno i livelli di istruzione più bassi. I vincitori invece sono i più istruiti, quelli che sono formati all’uso delle tecnologie digitali e si possono collocare nei nuovi lavori a disposizione.
Ma le istituzioni, davanti a questi problemi, non devono fare niente di speciale, dicono. Contrariamente a quanti propongono formule come assicurazioni contro le macchine o tassazione dei robot, loro danno due semplici soluzioni: «Primo, facilitare la ricollocazione dei lavoratori che risultano disoccuopati per via dei cambiamenti tecnologici. Secondo, creare un paracadute per coloro che sono in difficoltà temporanea a seguito della perdita del lavoro dovuta alle tecnologie». Ma, aggiungono, non è niente di nuovo e insormontabile: «Ci sono sempre stati problemi che i policy maker hanno dovuto affrontare per far fronte ai cambiamenti digitali o ad altre cause della perdita di lavoro, come il commercio internazionale ad esempio».
Allora come spiegare tutto questo catastrofismo sulla fine del lavoro e la sostituzione degli umani con i robot? «Una spiegazione è che la visione errata degli effetti della tecnologia derivi dalla propensione umana di sentire di “vivere in tempi speciali”. La mancanza di una conoscenza storica, la sensazione che si stiano vivendo alcuni eventi per la prima volta e forse il desiderio di attribuire significato al tempo in cui si vive contribuiscono ad accrescere questa propensione. Che ci porta a credere che fenomeni come i cambiamenti tecnologici abbiano conseguenze più gravi oggi rispetto al passato». Ma è tutto già visto.
Ovvio, poi ci sono una serie di vantaggi da cogliere da tutto questo catastrofismo. E anzi, «c’è anche chi lo fomenta», dicono. Un esempio: «Venderai molti più libri sul futuro del lavoro con un titolo come La fine del lavoro e non con uno tipo Va tutto come prima». E anche per i politici questa propensione pessimistica aiuta: «Ha senso gonfiare le difficoltà esistenti, in modo da poter dire che ci sono problemi nuovi che solo tu hai individuato e che solo tu potrai risolvere».