Riconoscere i santi è difficile: puoi essere cattolico, apostolico, romano e non capirci niente. Puoi essere il Papa e saperne pochissimo. Lo dice la Chiesa cattolica: il numero dei Santi è incalcolabile e conosciuto solo da Dio. Non è esauriente quindi il processo della canonizzazione, con i due miracoli accertati e la figura ora estinta dell’ advocatus diaboli (l’avvocato del diavolo, quello che pone tutte le obiezioni possibili, scovando particolari divisivi nella vita del beatificabile) e l’iscrizione al Martirologio Romano.
La santità è un fatto non burocratico, poco socialmente riconoscibile, in fondo non verificabile né falsificabile: ecco perché le inchieste sui santi, tipo quella di Christopher Hitchens su Madre Teresa di Calcutta, sono invariabilmente inutili. Non possono dire nulla oltre l’aspetto terreno. Che, a rigore, è solo un riflesso della santità, ma non la santità. I l”ibri verità” sui Santi equivalgono a parlare di opere liriche disputando sul peso in tonnellate della scenografia. Hitch era witty, ma non era The Lord. E nemmeno l’advocatus diaboli.
Per chi considera al cattolicesimo oltre la suggestione fantasy (o Bdsm) può essere stranamente suggestivo pensare di avere incontrato alcuni santi o almeno uno e non averli riconosciuti. La vecchina pia in bus? Magari anche sì. Il piccolo Aylan che giace sulla spiaggia? Magari sì e magari no: ricordiamo la vignetta crudele di Cherlie Hebdò che lo raffigurava cresciuto e diventato molestatore.
O magari il testa di minchia che ti ha appena distrutto il parafango. O magari, anche, l’assassino di tuo figlio. Un orribile paradosso che ha ipnotizzato Dostoevskij e fatto impazzire Ivan Karamazov: vittima e carnefice che si abbracciano in Paradiso.
La cosa più incomprensibile per l’etica contemporanea, legata al finito, è la possibilità di un perdono divino (l’etica contemporanea, di base, è tecnicamente incapace di perdono) e quello di conversione è uno dei concetti più inestricabili della teodicea, la riflessione sulla giustizia di Dio.
Bertrand Russel scriveva: “Se un filosofo è un uomo cieco, in una stanza buia, che cerca un gatto nero che non c’è, un teologo è l’uomo che riesce a trovare quel gatto”. Ecco. Qui siamo se non altro ipovedenti assai. La stanza buia è qui: oggi è venerdì Santo, il giorno simbolicamente legato all’oscurità, cioè alla morte del Dio uomo nell’unica religione che ammette questo scandalo. Possiamo sentirci teologi. Perché il gatto l’abbiamo trovato.
Riconoscere i santi è difficile ma qui a quanto pare ne abbiamo uno. La cosa singolare è che non ha un nome. Eppure è uno dei santi più importanti, forse il più importante di tutti. Ed è anche l’unico personaggio delle Scritture che chiama il Cristo col nome proprio e basta, Gesù.
Riconoscere i santi è difficile ma qui a quanto pare ne abbiamo uno. La cosa singolare è che non ha un nome. Eppure è uno dei santi più importanti, forse il più importante di tutti, l’unico a cui Cristo ha detto: “oggi sarai con me in Paradiso”, cosa che non ha detto né agli Apostoli, né alla Madre. Ed è anche l’unico personaggio delle Scritture che chiama il Cristo col nome proprio e basta, Gesù.
Il santo più importante di tutti non ha un nome, ed è un delinquente di mestiere. I vangeli di Marco e Matteo lo chiamano Lestos, brigante, mentre Il Vangelo di Luca lo chiama Kakourgos, “malfattore”: Luca scrive più tardi degli altri due evangelisti, e vuole evitare il termine Lestai, usato, dopo le violenze in Giudea, per identificare i cristiani, delinquenti pure loro.Si tratta naturalmente di uno dei ladroni crocifissi con il Cristo, quello che nella tradizione cattolica si chiama “il buon ladrone”, e che è stato denominato Dismas (o Disma, o Dema) solo nel quarto secolo. Normalmente viene festeggiato il 25 marzo, che secondo Agostino e Tertulliano sarebbe il giorno della morte di Gesù e della sua. L’altra particolarità dei santi è che il loro “dies natalis”, il giorno della nascita al Cielo, è quello della morte. La ricorrenza di San Dismas è sentitamente celebrata nelle carceri Usa in cui vige la pena di morte.
La scena. Gerusalemme, Golgota, pomeriggio, tre croci. I detenuti pestati e crocefissi. Cristo in mezzo, moribondo. I due Kakourgoi (o Lestai) a lato. Ecco il racconto di Luca (23,39-43) ”Uno dei malfattori appesi alla croce lo insultava: «Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e noi!». L’altro invece lo rimproverava dicendo: «Non hai alcun timore di Dio, tu che sei condannato alla stessa pena? Noi, giustamente, perché riceviamo quello che abbiamo meritato per le nostre azioni; egli invece non ha fatto nulla di male». E disse: «Gesù, ricòrdati di me quando entrerai nel tuo regno». Gli rispose: «In verità io ti dico: oggi con me sarai nel Paradiso»”.
Conversione di un delinquente all’ultimo minuto. Nel Vangelo arabo dell’infanzia di Gesù il ladrone si chiama Tito, da cui la canzone di De Andrè Il testamento di Tito. A parte la citazione di Luca qualche notizia su Dismas si trova, appunto nei Vangeli apocrifi. A cui la Chiesa Cattolica non attribuisce valore, ma che per i teologi ciechi -e poi appassionati a quella forma finitista di filologia che si chiama “storia degli effetti”, quindi alle leggende in quanto portatrici di verità extrametodiche- sono interessanti. Disma sarebbe nato in Egitto, avrebbe passato la vita rubando e uccidendo. E ci sarebbe stato un precedente incontro con Gesù: Disma avrebbe rischiato di attaccare la famiglia Nazareth in fuga in Egitto. Ma il ladrone sarebbe rimasto intenerito dalla visione di Maria, e avrebbe, anzi, portato alla Sacra Famiglia il proprio figlioletto lebbroso. Guarito dall’acqua usata da Gesù bambino per fare il bagnetto. Disma, in seguito, sarebbe tornato a fare il ladrone.
Secondo la tradizione siriaca chi arriva in Paradiso non vi trova Pietro, ma Dismas. Che sarebbe stato il primo ad entrarci, dopo un litigio con l’Angelo che custodiva l’ingresso. Il vangelo (apocrifo) di Nicodemo racconta di un uomo miserabile, con una croce addosso, che sta alla destra della porta del Paradiso. E l’altro pezzo della croce di Dismas si venera secondo la tradizione a Roma, nella basilica di Santa Croce in Gerusalemme.
Solo che stavolta, come ha notato Sant’Agostino, nel ruolo di Giudice c’è il Cristo, e i due ladroni di fianco sono gli imputati. Il paradosso parla da solo. Più che un tribunale sembra la caricatura oscena e splatter di un tribunale: un delinquente (come tale Gesù muore) torturato e moribondo che giudica altri due delinquenti torturati e moribondi
Conversione all’ultimo minuto di un delinquente, quindi. Ed entusiasmo incontenibile dei Padri della Chiesa proprio per la sua condizione di delinquente. San Fulgenzio lo definisce: “Violento nel mondo, violento nel premio”. San Giovanni Crisostomo: “Predatore e ladro del Paradiso”. Sant’Eusebio nota l’eccentricità (e indeducibilità) del personaggio rispetto ai canoni del cristianesimo: “Giammai chiamato eppure eletto/Mai stato servitore ma già amico/ Mai discepolo e già Maestro”. Un extracurricolare. “Giustamente” (parole sue) condannato da un tribunale.
In un bel librino Giorgio Agamben racconta il processo che si era svolto poco prima. In Pilato e Gesù (Nottetempo, 2013, 7 Euro) il filosofo romano spiega punto per punto il fatto che le due giustizie, quella di PIlato e quella di Cristo non comunicano mai. Non c’è mai un reale confronto tra il piano provvidenziale e quello umano. “Egli -Gesù, spiega Agamben- deve attestare nella storia e nel tempo la presenza di una realtà extrastorica ed eterna. Come si può testimoniare della presenza di un regno che non è “di qui”?”. Ecco, non si può.
Si può registrare che le tre croci sul Golgota sono esattamente lo specchio del processo (umano, non comunicativo, mai conclusivo) che si è svolto prima. Solo che stavolta il processo non è relativo alla giustizia umana. Solo che stavolta, come ha notato Sant’Agostino, nel ruolo di Giudice c’è il Cristo, e i due ladroni di fianco sono gli imputati. Il paradosso parla da solo. Più che un tribunale sembra la caricatura oscena, splatter di un tribunale: un delinquente (come tale Gesù muore) torturato e moribondo che giudica altri due delinquenti torturati e moribondi. La Croce, fango e sangue, invece dello scranno, una scritta di scherno (I.N.R.I.) invece de “La legge è uguale per tutti”. Invece del “Silenzio in aula” insulti e sberleffi al Giudice. Piagato, a quanto dicono mistici e veggenti a noi ipovedenti da 4000 e passa ferite.
Quella di Cristo è una vicenda paradossale e demolitiva di ogni parametro umano. Il filologo Erich Auerbach ha scritto un libro in due tomi (Mimesis, Einaudi) su come il Cristianesimo ha confuso le categorie della rappresentazione, mischiando alto e basso, tragedia e commedia e farsa, di fatto distruggendo i “generi” e le tipologie artistiche. Il filosofo Luigi Pareyson ha ricavato dalla vicenda di Cristo un tetro capitolo del suo libro Ontologia della libertà (Einaudi), intitolato “Il male in Dio”. Un grande giornalista, dal tavolino di un bar del Testaccio dice a chi scrive: «Ma come posso credere a un Dio massacrato dagli uomini, dai. Ma che è. Mavvà» e scava la tazzina cercando zucchero e l’ultima goccia di caffè. E ride, tipo Mangiafuoco.
Un grande giornalista, dal tavolino di un bar del Testaccio dice a chi scrive: «Ma come posso credere a un Dio massacrato dagli uomini, dai. Ma che è. Mavvà» e scava la tazzina cercando zucchero e l’ultima goccia di caffè. E ride, tipo Mangiafuoco
Ma torniamo al Gogota, alle croci, ai delinquenti e ai santi. Sempre secondo Agostino i due ladroni testimoniano i due atteggiamenti possibili di fronte alla divinità di Cristo. Il cattivo ladrone chiede, come prova della divinità, di essere salvato. Atteggiamento corrispondente a chi usa la religione a fini previdenziali-assicurativi. A chi vuole, tramite un dio, assicurarsi salute (e si trova perfettamente sbeffeggiato da Damien Hirst e dai suoi crocifissi con pillole) o magari anche un’etica che si trasformi in un destino abitabile (che poi è la posizione dell’eudemonismo greco, e forse del buddismo e chissà del veganismo), o magari solo senso, logica. Dio come garante della sensatezza delle cose. A volte quella che Heidegger chiama onto-teologia, cioè considerare l’essere ancorato alla stabilità temporale della divinità, assomiglia alle vecchiette che smorfiano i sogni, solo è molto meno divertente.
Mentre già solo, da ipovedenti, a scorrere il Martitologio romano ci si trova davanti a una galleria di freak e impreparati. Chi sbava di continuo e rischia di finire bocciato agli esami (Giuseppe da Copertino), chi ruba cavalli (Zeffirino, patrono degli zingari), chi comanda ai topi (Martino da Porres, il primo santo nero, del 500), chi non riesce a non dire e fare cazzate come San Pietro, che rinnega Cristo e taglia l’orecchio a uno. La fede, pare, acuisce le imperfezioni, non le lenisce.
E così Dismas il delinquente in Croce dice a Cristo: “siamo condannati per le nostre azioni”, che poi è il suono antico, archetipico, della saggezza silenica greca, anche. È qualcosa di meno inquietante ma molto più generale del senso di colpa e si chiama peccato originale. Morire per il fatto stesso di essere nati. L’ossidazione, sinonimo di invecchiamento, procede parallela all’età e non c’è niente da fare. Ci troviamo già in un difetto che buca la vita. Dismas ha perso l’illusione di cavarsela. Ma si affida. Il gesuita Michel Ledrus commenta: “Quest’uomo resta senza nome proprio, perché la sua conversione personale è tipica di tutte le conversioni autentiche”. Un po’ come guardarsi allo specchio al buio e trovarci l’ombre nera di un gatto nero.