A quasi due anni dal referendum che ha sancito la decisione di Londra di lasciare l’Unione Europea cresce l’incertezza sulla Brexit e si anima il dibattito sull’Europa. Al centro dello scontro, l’euro. Tra spazio economico comune e comunità di valori, una cosa sola è certa. Per fare l’Europa si dovrebbero prima fare gli europei. In un discorso sulla Gran Bretagna post Brexit tenuto a Coventry qualche giorno fa, il leader laburista Jeremy Corbyn, notoriamente euroscettico, ha preso posizione in favore della permanenza del paese nell’unione doganale. Un’ipotesi accolta con favore dalla maggior parte della stampa europea. Lasciare l’unione doganale, secondo l’opzione al momento fatta propria da Theresa May, comporterebbe per gli esperti innegabili effetti negativi sul commercio e sul processo di pace in Irlanda. In particolare quest’ultimo messo a rischio da un “hard border” con l’Ulster. Barriere e tariffe porteranno indietro le lancette della storia? “Meno commercio”, scriveva la Frankfurter Allgememeine Zeitung il 26 febbraio, “significa meno ricchezza e meno posti di lavoro su entrambe le sponde della manica”.
Il recupero della sovranità sulla politica commerciale inglese, continua il quotidiano conservatore, non giustificherebbe il prezzo pagato. “Che la piccola Gran Bretagna possa poi strappare in un negoziato con gli USA condizioni migliori rispetto a quelle dell’Unione rientra nel novero delle illusioni inglesi”. Un punto a favore del mercato unico. Un secondo articolo della FAZ batteva un tempo diverso. Sempre lo stesso giorno, il giornale ospitava infatti le dichiarazioni anti-euro del sociologo italiano Lucio Baccaro, da poco diventato direttore del prestigioso Istituto Max-Planck di Colonia. In un’intervista rilasciata alla FAZ, Baccaro afferma senza mezzi termini che “la moneta unica è stata un errore” per l’Italia. Alla domanda se il nostro paese debba negoziare un’uscita dall’euro, il sociologo non ha avuto esitazioni. “Im Großen und Ganzen: si!”. Di quest’intervista e, confesso, dell’esistenza stessa del nostro illustre concittadino, ho saputo il giorno stesso della pubblicazione, dall’europarlamentare tedesco Hans-Olaf Henkel, in una stanza al sesto piano del Parlamento a Bruxelles. Qui sono ubicati gli uffici dei Conservatori e Riformisti Europei (ECR), dove avevamo concordato un appuntamento per parlare di una “Exit from Brexit” e dell’Europa. Ex top manager dell’IBM, Henkel è stato Presidente della Federazione dell’Industria Tedesca (BDI) tra il 1995 e il 2000. Sostenitore del mercato unico, ma contrario ad un’unione politica, sicuramente non è entusiasta dell’euro, di cui non vedrebbe male la fine. Entrato in politica con l’AdF (Alternativa per la Germania), prima che l’ex “partito dei professori” prendesse la strada della protesta radical-populista, l’ha abbandonata nel 2015 per passare al gruppo dei Conservatori e Riformisti.
Herr Henkel, insieme ad altri due ex Presidente del BDI, imprenditori quali Roland Berger, diversi importanti manager tedeschi e l’economista Hans-Werner Sinn, noto per essere un “falco” dell’austerity, Lei ha avviato la campagna “A New Deal for Britain”. Ci dice di cosa si tratta e a cosa punta?
La Brexit rappresenta il più grave fallimento per l’Unione Europea. Come dice il nome stesso della nostra campagna, siamo convinti che l’UE debba proporre a Londra uno “special deal” per fermarla. Credo che entrambe le parti abbiano avuto delle responsabilità sia nella fase precedente al referendum sia in quella delle trattative. Credo soprattutto che Il referendum del 2016 non avrebbe avuto luogo se Bruxelles avesse concesso all’allora Primo Ministro David Cameron il compromesso di cui aveva bisogno. Questo è vero in particolare per l’immigrazione. Alla richiesta di Londra di poter mettere un tetto al numero di immigrati provenienti da altri paesi membri si è risposto con rigidità e intransigenza per me incomprensibili.
Questo compromesso, sostiene Bruxelles, metterebbe però in discussione l’intangibilità del diritto di circolazione delle persone, uno dei fondamenti del mercato unico.
Non sono d’accordo. Bruxelles si appella alla presunta intangibilità delle quattro libertà fondamentali per rifiutare alla Gran Bretagna quello che era già stato concesso alla Germania. Nel 2001, mentre si discuteva dell’allargamento dell’Unione a est, l’allora Cancelliere tedesco Schröder chiese e ottenne che fosse riconosciuto il diritto ad avvalersi di una moratoria di sette anni al principio della libera circolazione delle persone. La Germania, come altri stati, era preoccupata di dover accogliere troppo in fretta un numero eccessivo di persone. Si temeva che molti cittadini dei nuovi paesi membri si sarebbero trasferiti da noi in cerca di lavoro e che non saremmo stati in grado di accoglierli. Fu prevista perciò una fase di transizione che è terminata nel 2011.
Da un punto di vista più generale, Lei è passato dall’essere – e qui la cito – un entusiastico sostenitore dell’euro nelle fasi iniziali della moneta unica, all’euroscetticismo di oggi. Può spiegare l’evoluzione del suo pensiero?
È molto semplice. Ci sono due ragioni che spiegano questo passaggio. La prima è contingente. La realtà dell’euro non ne rispecchia il progetto iniziale. Nel momento in cui noi tedeschi abbandonammo il marco, furono fatte delle promesse e presi degli impegni dai politici dei paesi dell’eurozona. Se questi impegni fossero stati mantenuti, sarei ancora a favore dell’euro. Con il Trattato di Maastricht, erano stati stabiliti severi criteri a garanzia del buon funzionamento dell’euro e la tenuta del sistema. I famosi parametri di Maastricht prevedevano che il deficit pubblico non fosse superiore al 3% e che il debito pubblico restasse sotto la soglia del 60% del PIL. I vicoli però sono rimasti solo sulla carta. Fino ad oggi ci sono state oltre 100 violazioni e nessuna di queste ha portato all’apertura delle previste procedure di infrazione. È doveroso sottolineare come i primi paesi che hanno violato le regole siano stati proprio la Germania e la Francia.
La seconda ragione è strutturale. Con il tempo, mi sono convinto che la moneta unica di per sé non sia una buona idea. Una moneta dovrebbe rispecchiare la realtà economica dell’area dov’è utilizzata. Questo non è il caso dell’euro. Ciò avviene per una ragione semplice. All’interno dell’eurozona coesistono regioni con economie troppo diverse tra loro e diversi livelli di sviluppo industriale. L’euro è una moneta che è strutturalmente troppo debole per i tedeschi mentre resta troppo forte per il sud dell’Europa. È il caso, in particolare dell’Italia. Quello che fa bene a Berlino danneggia Roma e non c’è una ricetta monetaria buona per tutti. La Banca Centrale Italiana poteva nel passato usare la leva dei tassi d’interesse per garantire gli aggiustamenti resi necessari dalle mutate condizioni economiche. Questo oggi non è più possibile.
Anche all’interno dei singoli stati europei, tuttavia, a partire dalla Germania, ci sono regioni con diversi livelli economici. In Germania, ad esempio, accanto alla tradizionale divergenza di condizioni economiche tra l’est e l’ovest, oggi cresce il gap tra i Länder del nord e quelli del sud. Questa è la ragione per cui esiste, ed è un principio di rango costituzionale, il così detto “sistema di equalizzazione fiscale”. Secondo lei non è un che potrebbe funzionare anche per l’UE?
In poche parole, no. Lo dimostra il fatto stesso che esistano ancora, come da lei sottolineato, profonde divergenze all’interno dei singoli stati europei. Come giustamente lei stessa diceva, abbiamo questo sistema in Germania e tuttavia le divergenze economiche persistono e non sono state superate. La stessa cosa avviene in Italia dove il sud non cresce malgrado decenni di azioni a sostegno dello sviluppo. lo non credo che un sistema di trasferimenti permetterebbe di colmare queste differenze.
Uno degli obiettivi della politica dell’unione, con una chiara attribuzione di competenze a partire dall’Atto Unico del 1986, è quello di ridurre il divario tra le varie regioni. Ritiene che i meccanismi e gli strumenti della politica di coesione economica e sociale non siano utili o rilevanti in questo senso?
In linea generale, la politica di coesione è giusta e assolutamente corretta. Il principio di coesione prevede che le regioni economicamente più sviluppate aiutino quelle relativamente meno avanzate a progredire. La Germania versa il 1,2% del suo PIL per il bilancio europeo. Questo è più o meno il livello su cui si attestano i contributi di tutti gli stati membri. Quindi, in primo luogo gli obblighi di finanziamento sono limitati e definiti. Inoltre, la politica di coesione è finalizzata a sostenere progetti specifici, un ponte in Spagna o lo sviluppo del sud d’Italia ad esempio. Da ultimo, si tratta di un sistema soggetto a un controllo di legittimità democratica. La decisione è presa dagli stati e dai loro parlamenti quando mettono a disposizione le risorse. Sono due situazioni diverse. Diverso invece è il caso se la politica di coesione passa attraverso decisioni autonome della BCE: sono due cose diverse. Non puoi avere una legittima politica di coesione sostenuta da una Banca Centrale Europea che stampa moneta. Soprattutto, manca qualunque forma di controllo democratico sulla governance della BCE. Non sappiamo quando, come e perché venga stampata moneta. A quali fini? Non c’è controllo democratico e non può esserci, perché i paesi più piccoli hanno lo stesso peso di quelli più grandi nel direttorio della BCE.
Parla di meccanismi di controllo democratico. Molte voci invitano al superamento del così detto deficit di democrazia e di rappresentatività delle istituzioni dell’UE. Non potrebbe essere una strada per il futuro dell’Europa?
Non credo che l’Unione debba procedere verso la costruzione di uno superstato europeo. Non credo affatto che sia giusto per l’Europa, che è costituita da un insieme di stati e popolazioni troppo diverse. Al contrario proprio questa diversità rappresenta, a mio avviso, la ricchezza e la fonte di creatività dell’Europa. La mia percezione è, al contrario, che oggi, a causa della globalizzazione, della transizione tecnologica, a causa del senso di confusione delle persone di fronte a quello che non conoscono, allo spaesamento di chi si trova improvvisamente a dover usare uno strumento che prima non esisteva affatto, ci sia un ritorno verso il concetto di Heimat, per usare una parola tedesca. La mia visione per l’Europa non sono gli Stati Uniti di Europa; ma è quella di De Gaulle, l’Unione delle Patrie, Europa der Vaterländer. Credo anche che questo bisogno, questa ricerca di identità sia ben visibile nel rafforzamento dei molti movimenti separatisti in Europa e nel mondo, dalla Sardegna al Québec alla Scozia. Temo piuttosto che la tendenza verso l’armonizzazione, che è diventato il mantra di Bruxelles, il forzato tentativo di negare questo bisogno di identità locali possa sfociare anche nell’affermarsi di movimenti violenti e populisti. Non dovremmo permettere a questi ultimi di proliferare.
Le parla di questo bisogno cogente di Heimat, di riaffermazione della propria identità. Non crede che in questo senso l’identificazione avvenga oggi non tanto al livello degli stati nazione quanto in una dimensione più ristretta, limitata, locale?
Sono perfettamente d’accordo. Infatti, con riguardo al mio paese sono molto favorevole ad un rafforzamento delle forme di governo locale. A un passaggio di competenze dallo stato alle comunità locali. Credo sia molto giusto che le decisioni siano prese quanto più possibile vicino al territorio. Quando le persone sono direttamente coinvolte nella gestione dei problemi, cresce il loro senso di responsabilità. Se un problema non viene risolto, detta semplicemente, non me la posso più prendere con il governo, la politica, o un altro capro espiatorio. Solo in questo modo si può contenere il senso di frustrazione che oggi è tanto diffuso tra i cittadini e – in parte – è causa della perdita di fiducia nei confronti dello stato e delle istituzioni.
Lei ricordava poco fa il senso di spaesamento delle persone di fronte alla crescente complessità del mondo e dei problemi. Mi sembra che gli stati nazionali oggi non siano attrezzati per affrontare alcuni problemi “sistemici”. Il cambiamento climatico ad esempio, la trasformazione dei rapporti internazionali o la rivoluzione digitale, non debbono forse meglio essere rimessi ad entità più vaste, come appunto l’Unione Europea?
Sono stato alla guida di IBM in Europa. Avevamo 2000 persone. Oggi l’IBM Europa, come struttura, non esiste più. Ci sono le divisioni nazionali: c’è un IBM in Germania, quella Italiana e c’è un network internazionale. Per le grandi corporation l’Europa è un’entità inesistente, o meglio, irrilevante. Se ci sono uffici di rappresentanza a Bruxelles, questi esistono per un solo scopo e con un unico mandato. Fanno attività di lobby.
Sinceramente non so se per le corporation Bruxelles sia davvero irrilevante. Al contrario, credo che la legislazione europea abbia fortemente inciso – a volto guidato – processi di innovazione industriale che hanno accresciuto la competitività dell’industria europea. Un esempio per tutti, le norme in materia di ambiente ed energia. Nel settore della gestione dei rifiuti, ad esempio, o dell’industria cartaria che ha sviluppato macchinari sempre più efficienti per l’impiego di fibre riciclate creando nuovi mercati per nuovi prodotti. Non a caso, da tempo, le industrie del settore cartario europee sono leader livello mondiale. Importante è stata anche la definizione di standard qualitativi e di prodotto. Oggi, poi, dobbiamo fare i conti anche con le grandi piattaforme digitali, Google, Amazon, Facebook, Uber, solo per citare le più famose. Queste operano ormai al di là dei confini nazionali e – in taluni casi – possono porsi come “poteri” alternativi agli stati. Credo che ci sia bisogno invece di più interventi che regolino e limitino il comportamento e il potere di queste grandi aziende nell’interesse dei cittadini, delle collettività, degli stati. E credo che questo ruolo possa essere giocato solo da Bruxelles, forte della dimensione europea.
Su questo punto le do ragione. Sono un fervente sostenitore del mercato comune. Credo sia il maggiore risultato dell’Unione Europea. Ed è lontano dall’essere compiuto.
Un’ultima battuta sulle elezioni italiane?
Dico subito che sono molto d’accordo con Lucio Baccaro. Per l’Italia la moneta unica è un disastro. La produttività delle imprese italiane è ferma da due decenni. L’economia italiana non cresce o cresce troppo poco, comunque molto più lentamente della Germania e della Francia. Il debito pubblico è arrivato al 130% del PIL. Il doppio di quello tedesco. Credo bene che gli italiani abbiano votato per quei partiti che vogliono portarli fuori dall’euro.
Cosa pensa di Matteo Salvini e della Lega Nord?
Della Lega posso dire che apprezzo la presenza dell’economista Alberto Bagnai.